Vite al confine

Tra Turchia e Siria, tra profughi e storia

Per andare da Mardin a Gaziantep, lungo il confine turco-siriano, il modo più diffuso per viaggiare è prendere un autobus.

Chi ha viaggiato in Turchia ha già in mente l’otogar, la grande stazione degli autobus presente in ogni città. In un paese cosi vasto, dove la rete ferroviaria è praticamente inesistente, i lunghi viaggi in autobus sono inevitabili. Da Gaziantep a Istanbul sono 17 ore di viaggio, da Mardin a Gaziantep 8 ore di strada che costeggia a pochi chilometri di distanza la Siria.

Lungo quest’ultimo tragitto, spesso l’autobus si ferma nelle varie otogar di paesi e città sulla strada: Kızıltepe, Viranşehir, Şanlıurfa, Suruç ed infine Gaziantep.
Si scende dall’autobus per qualche minuto per una corsa alle toilette, un çay, una sigaretta, un simit. Ed è proprio li, nel grande piazzale dell’otogar che, affollati uno di fianco all’altro, si trovano i protagonisti di chi vive e passa nel sud est turco oggi.

L’otogar è un crocevia di situazioni distanti: anziane signore in velo bianco che vanno al mercato della città vicina, indaffarati uomini d’affari, qualche turista un po’ sperduto, famiglie contente in partenza per una gita, e poi tantissime altre famiglie con un altro stato d’animo. Spesso è una madre da sola, in çarşaf, con 3-5 bambini piccoli.

I loro vestiti sono sporchi di fango, come lo sono le loro valigie, se hanno avuto il tempo di farle. Se no arrivano caricando grandi sacchi di plastica pieni di vestiti e sacchi di olive.
Un’anziana signora non ha portato bagaglio con sé, solo due contenitori di plastica grandi la metà di lei, pieni di grosse olive verdi. Sta litigando con l’autista; l’uomo le urla in turco che non vuole le sue olive nel bagagliaio. La donna risponde alzando anche lei la voce in arabo, non parla turco, ma ha capito che il viaggio delle sue olive è messo a repentaglio.
Due giovani uomini intanto guardano la scena e tra uno sbuffo e un mezzo sorriso si dicono “Suriye…” (“Siriani…”)

Tra Gaziantep e Salinurfa sono concentrati i grandi campi profughi siriani. Tendoni principalmente pieni di donne e bambini. Gli uomini sono rimasti a combattere. Lì vicino, a Suruç, le famiglie dei curdi siriani si preparano a tornare a Kobane, da poco liberata. Ad aspettarli rimangono i ricordi delle loro case ridotte ormai a macerie.

Gli altri siriani, quelli dell’otogar, salgono su diversi bus, molti vanno in direzione di Istanbul. Li aspettano 17 ore di viaggio, nelle quali attraverseranno tutta la Turchia. Se sono fortunati, una volta arrivati, ad aspettarli ci saranno degli amici o parenti che abitano già li, li accompagneranno ed ospiteranno nelle loro case, la maggior parte delle quali si trovano nelle enormi periferie di Istanbul o a Tarlabası.

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Se invece sono meno fortunati arriveranno a Istanbul senza nessuno ad aspettarli, da soli, con le valigie sporche di fango e le olive. Allora per disperazione probabilmente si affideranno a qualche mafia locale che darà loro una stanza sovraffollata dove dormire.

In cambio i bambini andranno per strada a mendicare. Forse saranno tra quelli che si vedono correre tra le macchine nelle grandi circonvallazioni trafficate di Istanbul, mentre vendono corone di fiori o puliscono i vetri delle macchine. Oppure la sera suoneranno un flauto o un tamburo in Istiklal Caddesi, dove qualche turista si fermerà a dare loro 5 lire e a fare una foto insieme.

Gli autobus cominciano a partire dall’otogar. Quando i loro motori si accendono l’area diventa irrespirabile. Dicono che ciò accade perché usano la benzina non raffinata, quella che entra illegalmente dal confine siriano.
Il bus è già in moto da qualche minuto, ma una donna velata si rifiuta di sedersi; non può stare vicino a un uomo, la sua purezza sarebbe contaminata. Una giovane donna in minigonna si alza e le fa spazio di fianco a lei.

Intanto, l’autobus costeggia pianure e montagne e vallate verdeggianti e bellissime. Lì vicino scorrono il Tigri e l’Eufrate, in Mesopotamia, dove millenni fa nasceva la nostra civiltà.

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