Azerbaigian, nessuno spazio per la parola

A Baku la censura colpisce oppositori e giornalisti

di Maria Izzo

Nizami Ganjavi, poeta persiano, visse nel XII secolo in una terra che, dalle pendici meridionali del Caucaso, si affacciava sul Mar Caspio, scendendo verso l’altopiano iranico. In quel vivace crocevia di innumerevoli filosofie, religioni ed altrettante eresie, il poeta scriveva “Lo spazio della parola dovrebbe essere vasto”.

In nove secoli di storia su quella terra si sono succeduti popoli, eserciti, dinastie, ma dalle ceneri dell’ultimo impero caduto, quello sovietico, è emerso un monolitico sultanato dalla stretta repressiva che alla parola non lascia più spazio. L’attuale Azerbaigian, allora patria di Ganjavi, non potrebbe essere più distante dal universo del poeta.

L’Azerbaigian, oggi abitato principalmente da azeri musulmani e turcofoni, nasce come Stato indipendente nel 1991, seguendo l’onda delle violente scosse indipendentiste che percorrevano le periferie dell’Unione Sovietica già dagli ultimi anni ’80. I primi passi della Repubblica di Azerbaigian sembravano andare in una direzione molto precisa: nazionalista, filoturca e antirussa.

Tuttavia, i disordini interni e l’acuirsi del conflitto territoriale con l’Armenia portarono rapidamente all’allontanamento di Abülfaz Elçibay, il presidente che aveva guidato la rinascita identitaria azera, e al ritorno nel 1993 di una vecchia conoscenza, Haydar Aliyev, satrapo caro a Brežnev, ma deposto da Gorbačëv per il suo eccessivo conservatorismo. Aliyev riuscì a ristabilire rapidamente l’ordine, ma la stabilità costò al paese un prezzo estremamente alto: l’affermarsi di un sultanismo di stampo sovietico, caratterizzato da corruzione sfacciata, gestione clanica delle risorse e soffocante autoritarismo.

Nel 2003, in seguito a una modifica costituzionale del 2002 che aveva reso possibile il trasferimento ereditario del potere, è salito al soglio presidenziale Ilham Aliyev, figlio di Haydar, che ha perfezionato il modello autocratico paterno, consolidando la propria posizione e limitando al massimo le manifestazioni di dissenso, attraverso una serie di misure legislative che permettono al governo di controllare e chiudere più facilmente i mass media nazionali e stranieri con l’accusa di diffamazione.
Il 2014 è stato l’annus horribilis per la libertà di espressione in Azerbaigian.

Paradossalmente, la stretta autoritaria ha raggiunto il picco massimo di violenza proprio in un momento – apparentemente – di grande dinamismo e apertura internazionale. Lo scorso anno il Paese ha iniziato a prepararsi per ospitare i primi Giochi Europei, che si terranno a giugno a Baku, la scintillante capitale del petrolio azero; sempre nel 2014 l’Azerbaigian ha assunto la Presidenza del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, organo a cui l’Azerbaigian ha aderito nel 2001, siglando la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.

Ma il fatto, riletto alla luce degli eventi del 2014, ha un che di sardonico. Nell’arco di un anno, infatti, si è registrato un preoccupante aumento nel numero di detenzioni arbitrarie di giornalisti, blogger e attivisti, tutti accomunati da un atteggiamento critico nei confronti del regime di Aliyev. In marzo Ilgar Mammadov, leader del partito d’opposizione Alternativa Repubblicana e candidato alla presidenza dell’Azerbaigian, è stato condannato a sette anni di detenzione in seguito all’accusa pretestuosa di incitamento alla rivolta.

In maggio otto attivisti coinvolti nell’organizzazione di proteste pacifiche nei confronti del regime hanno ricevuto condanne da sei a otto anni di detenzione per accuse inconsistenti; poco più tardi due osservatori elettorali sono stati sommariamente condannati rispettivamente a cinque anni e sei mesi e tre anni e sei mesi per evasione fiscale, imprenditoria illegale e abuso d’ufficio. Con le stesse modalità, fra gli ultimi giorni di luglio e i primi di agosto, sono stati arrestati quattro fra i più noti attivisti per i diritti umani, Intigam Aliyev, Rasul Jafarov e i coniugi Yunus, Leila e Arif.

Contemporaneamente, sulla base dell’accusa di attività criminale, le Autorità conducevano indagini sulle Organizzazioni non governative presenti sul territorio e congelavano i conti bancari di almeno 50 associazioni. Nello stesso periodo proseguiva nella totale impunità la repressione di giornalisti oppositori, che venivano ridotti al silenzio con l’arresto o addirittura con le violenze fisiche.

Hanno destato particolare clamore i casi del giornalista Ilgar Nasibov, brutalmente aggredito il 21 agosto, e quello di Khadijia Ismailova, giornalista d’inchiesta arrestata il 5 dicembre con la falsa accusa di aver spinto un collega a tentare il suicidio. Khadijia Ismailova collaborava con Radio Free Europe/Radio Liberty, che è stata chiusa per volere del Governo poco dopo, il 26 dicembre. Gruppi locali riferiscono che la crociata contro gli oppositori di Aliyev abbia portato a 100 arresti per motivi politici nell’arco di tutto il 2014.

I fatti, ovviamente, non sono passati inosservati. Molteplici voci di denuncia si sono levate contro la condotta dispotica di Aliyev da parte degli osservatori internazionali presenti in Azerbaigian: Freedom House, Reporters without Borders, Amnesty International, Human Rights Watch. Lo stesso Consiglio d’Europa, di cui l’Azerbaigian è membro, si è espresso negativamente, mentre il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione contro l’intensificarsi della pressione intimidatoria da parte del governo azero nei confronti di ONG, attori della società civile, giornalisti e attivisti per i diritti umani.
Ma il Presidente non si ferma.

Urla al complotto dell’Occidente colonialista e prosegue imperterrito nel suo tentativo di addomesticamento dell’opinione pubblica. Dall’inizio del 2015 si sono già registrati diversi casi di abusi sui giornalisti e di irregolarità nei processi dei due attivisti Rasul Jafarov e Intigam Aliyev. Intanto, mentre a Khadija Ismailova viene annunciato che più pesanti accuse sono state formulate a suo carico, il governo emana una nuova legge che facilita ulteriormente la chiusura degli organi di stampa da parte delle Autorità.

Insomma, il sultano Ilham non sembra molto turbato dalle critiche dell’Occidente. E’ molto probabile che conti sul fascino magnetico del petrolio azero per spegnere il mordente etico dei partner stranieri.