Santiago de Cuba, febbraio ‘15

Il disgelo con gli Usa visto con gli occhi del popolo

Edda è una delle tante proprietarie di una casa particular a Habana. Ha insegnato storia all’università, a Cuba e nella Germania dell’Est, parla quattro lingue. Lei e suo marito, che fa l’idraulico, appartengono alla esigua fascia di popolazione che è riuscita a venir fuori dai catoi, dagli anfratti della fatiscente e sontuosa architettura coloniale di Habana agganciando il flusso turistico, la valuta che dà accesso al mercato del normale consumo occidentale.

Neppure lei crede molto all’arrivo degli americani. Esperamos dice, e il verbo esperar in spagnolo significa tanto aspettare che sperare. Nella Cuba di Raul tutti esperano l’arrivo dei turisti e dei capitali statunitensi con smagato scetticismo. Obama non li incanta, e neppure Raul.

Da sessanta anni la gemma caraibica della corona spagnola è rimasta custodita in un isolamento in gran parte imposto dall’impero americano, in parte determinato dal regime.

Il bloqueo statunitense aveva l’intento dichiarato di prendere per fame la popolazione, di provocare una controrivoluzione, di cancellare subito l’infezione rivoluzionaria nel grande cortile di casa che la guerra fredda rendeva politicamente strategico.

Dopo più di mezzo secolo la vita quotidiana dei cubani coincide con la quotidiana lucha per sopravvivere con dignità, con molta musica e rum per strada e nei locali, nelle case, e con stipendi statali di meno di 30 euro al mese, poca carne, cattiva e troppo cara, molta frutta, molte pizze e carboidrati e tanta sicurezza, di quella che si può dormire con le porte aperte (o quasi), una istruzione diffusa, elevata, anche se è facile incontrare un taxista laureato in architettura o un insegnante che arrotonda facendo il cuoco.

Al cinismo statutitense si sono aggiunte le rigidità di una pianficazione economica che ha reso l’agricoltura dell’isola dipendente dalle monocolture e incapace di produrre cibo sufficiente per l’intera popolazione, un’economia statalista che dopo il collasso dell’URSS ha dovuto attendere il petrolio a prezzo di favore di Chavez per arginare la nuova fuga da Cuba: nel 1994 le imbarcazioni salpavano dal Malecon di Habana verso la Florida senza che nessuno cercasse di impedirlo.

Oggi le code davanti i negozi alimentari statali, che sembrano ancora più grandi per la scarsa merce in vendita, ortaggi, pomodori e cipolle da scegliere ad uno ad uno e che ricordano la dignitosa povertà dei nostri anni ’50, le code davanti i panifici e le banche, i loro negozi di abbigliamento, quei posti statali dove un caffè e un dolce si pagano dieci volte meno, le code rassegnate davanti ai pochi telefoni pubblici per strada o nelle sedi di Etecsa, alla fine tutto questo starsene in fila immersi nella calura tropicale e nel micidiale smog prodotto dal traffico partecipano di una dimensione del tempo rallentata e flessibile, alla quale semplicemente ci si abitua.

I cubani hanno adattato la loro magnifica pecularità culturale, la formidabile mescolanza etnica che rende inutilizzabile nell’isola la parola razzismo, la loro sensualità, alle angustie della povertà economica e a quelle di un regime che ha azzerato la libertà di stampa (due soli quotidiani che sembrano i fogli della ultrasinistra dei primi anni ’70), riempito le galere di oppositori politici, condannato la popolazione dell’isola ad una dimensione surreale del trasporto su gomma, spettacolare come un museo pop a cielo aperto di strabilianti esemplari degli anni ’40 e ’50, e inquinante come devono esserlo migliaia di motori che da più di mezzo secolo bruciano carburante in una ferraglia resa funzionante da meccanici prestigiosi e dignitosi come accademici. Fidel ha deciso che bisogna scoraggiare il consumismo, perciò se proprio un cubano vuole comprare un’auto di 10mila euro bisognerà che la paghi venti volte più cara.

D’altra parte, fra le poche ma importanti buone cose che i ‘barbudos’ hanno dato ai cubani – istruzione e sanità gratuite e di buon livello in primo luogo – forse la più felicemente socialista è proprio l’assenza di consumismo, l’attitudine a riutilizzare l’usato e l’equivalenza di prestigio e riconoscimento sociale fra i lavori manuali e quelli intellettuali.

I cubani si sono adattati, e se è vero che fra le strade buie del centro di Habana vieja ci si può spaesare come in certe zone di Napoli, della nostra capitale mediterranea manca la storta spavalderia: né camorra, né ‘spirtizza’ siciliana, né ‘valentia’ sarda ad Habana come a Santiago, mentre della nostra meridionalità latina sembrano custoditi i succhi migliori, quelli antichi della generosità, della saggezza, dell’allegria, della musica e del bello che c’è nella vita dei corpi.

Si sono adattati, si sono abituati: casi invisibles de abituales, scriveva Borges delle vie di Buenos Aires. L’abitudine che produce l’invisibilità, quel vedere senza guardare, schiacciato su un presente che non passa come un sole che non vuole più tramontare, e tuttavia sperando: aspettando e sperando.

«Con Raul – spiega Edda – si sono creati degli spazi per l’iniziativa privata e il mercato, da alcuni anni i contadini possono vendere una quota della loro produzione a chi vogliono e al prezzo che vogliono e anche la gestione privata delle case particular è adesso incoraggiata. Prima, non si poteva affittare più di una stanza, adesso anche due o tre. Il guadagno c’è, ma lo Stato effettua un pesante prelievo fiscale: un fisso al mese di 100 cuc, più la percentuale sull’incasso reale».

Nell’ampio cortile interno della sua casa, fra vecchi mobili scuri, ninnoli e centrini a maglia, sopra un vecchio divano rattoppato, c’è una grande immagine di Gesù e di fronte, un po’ meno grande quella del Che, nella solita foto di Korda.

Che Guevara è ovunque, sulle magliette, sui muri delle città, nei locali per turisti e in quelli dove ci sono solo vecchie prostitute e cubani ubriachi, nelle case miserabili di Habana vieja e negli atri sontuosi dei palazzi restaurati.

Ernesto Guevara appartiene alla leggenda, al paradiso dei rivoluzionari che hanno lasciato il tempo e la storia prima che il tempo ne devastasse i corpi e la storia sciupasse nella prosa del duro realismo socialista l’aura della leggenda giovanile. Fra il paradiso rivoluzionario e quello cristiano lo sgangherato, malinconico e festoso purgatorio dei cubani piace molto ai turisti. Meno spagnoli e italiani, molti canadesi, inglesi e tedeschi. La nostra crisi fra circolare meno cuc, ma il turismo rimane la risorsa economica più consistente. E l’immagine del Che un’icona della Cuba in svendita.

«Da quando è venuto il papa polacco lo Stato è molto più tollerante con i cattolici e anche con le altre chiese cristiane, ma prima non era così. Cambiano i tempi, dice Edda, è normale, la vita degli uomini è cambiamento. Qui però tutto è fermo. E quando Fidel e Raul se ne andranno che succederà? Dios lo sabe».

 

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