Le vene aperte della Colombia

Il Rio Patia, un fiume che muore di watergrabbing

El Valle del Patia era una delle zone più fertili della Colombia. Le grandi pianure del Sud Occidente del Paese bagnato da immense vene d’acqua, quei fiumi lenti e larghi che Garcia Marquez raccontava e che le comunità abitavano, risalivano, veneravano fra cosmogonie e sincretismi. Oggi questa regione del paese latinoamericano che guarda verso l’Oceano Pacifico, è un esempio senza sconti di quello che significa modello energetico neoliberista.

Siamo andati con una missione di valutazione, nell’ambito del progetto di cooperazione internazionale “Acqua giustizia e pace” che Yaku porta avanti insieme alla Provincia di Trento e all’organizzazione per i diritti umani Justicia y Paz Colombia, a visitare alcune comunità afrocolombiane che vivono lungo il Rio Patia, il fiume più importante del Sud Occidente colombiano.

Galindez e Pilon sono paesini strani, nati lungo la Panamericana e abitati da afrodiscendenti che dopo l’abolizione della schiavitù si sono sistemati lungo le rive di questo grande corso d’acqua, facendosi pescatori, piccoli coltivatori, pacifici abitanti di una parte del paese che quasi non li considera, gente poverissima che forse dalla schiavitù non è mai uscita.

Qui centinaia di persone sono senz’acqua. Con le loro baracche di mattoni e lamiera siedono a pochi metri dal Rio Patia, che è il terzo fiume per dimensioni della Colombia. Eppure acqua per loro non ce n’è. Non hanno praticamente da mangiare. Ma le grandi famiglie latifondiste hanno installato in questa zona le loro fincas agricole, immensi appezzamenti dedicati per lo più ad allevamenti di vacche. Contraddizioni forti che hanno spiegazioni precise, ma che comunque lasciano interdetti.

Il primo impatto è il calore afoso e maleodorante che avvolge tutto e rallenta i movimenti. Il nostro taxi, fermato più volte dai posti di blocco dell’esercito, termina la sua corsa all’imbrunire nei pressi del Puente Galindez. Per le strade terrose, riflessi nell’ultima luce del giorno, giocano i bambini, mentre le donne siedono con lo sguardo lungo fuori dalle loro baracche e qualche uomo in canottiera si fa aria con il cappello. Potremmo essere in Africa o in qualche quartiere di New Orleans.

La presenza di afrodiscendenti qui è massiccia per non dire totale. Ed è interessante capire come il Ministero dell’Interno del Governo colombiano affermi che qui non c’è alcuna presenza di comunità di colore.

Ci riuniamo con i rappresentanti dei consejos comunitarios – sorta di istituzioni locali comunitari – che ci raccontano della loro situazione. Il fiume Patia è completamente avvelenato. I suoi affluenti sono utilizzati dalle multinazionali dell’oro. La AngloGold Ashanti è una delle più aggressive. Nel Cauca – la regione dove ci troviamo – ha installato un numero impressionante di miniere che nei fiumi lavano il mercurio e gli altri metalli pesanti rendendo le acque sterili. La gente di Galindez e Pilon non ha mai avuto un acquedotto, né una fogna.

I municipi dicono che non ci sono soldi e dunque qui ci si arrangia col fiume. Ora però il Rio Patia può regalare solo malattie e morti lente. Le miniere usano le sue acque. L’impresa Consorcio de vias y Equipos invece usa il materiale del suo letto per utilizzo edilizio. Violentato due volte, il suo corso cambiato, le sue rive devastate, il Rio Patia è un fiume cadavere.

Fino a dieci anni fa era luogo di villeggiatura per antonomasia. La classica meta delle scolaresche a fine corso, e a Pasqua le famiglie festeggiavano con pranzi senza orario la Semana Santa: prima la pesca dei sabanos , pesci grassi e lunghi mezzo metro (raccontano), poi le grigliate e i balli fra le borrachere allegre (sbronze) da smaltire sulle rive vicino ai falò.

Oggi il Rio Patia sembra un deserto apocalittico. Le imprese che lo deturpano, in nome del “progresso di un Paese che avanza”- come si legge sui cartelli dei posti militari, con tanto di soldato che abbraccia il bambino – avrebbero dovuto chiedere il consenso delle comunità locali, secondo quanto prescritto dalla Costituzione. Un meccanismo che si chiama Consulta Previa. Ma che qui, visto che è stato certificato che non esistono comunità afrodiscendenti, non è stato applicato.

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Lorenzo Oliveros è un nero alto con un sorriso senza compromessi. E’ rappresentante della Conafro, l’organizzazione di afrodiscendenti del Cauca. Vive a Galindez e fino che lui possa ricordare, la sua famiglia è sempre stata di lì. “Ero contadino, avevo un paio di campetti lungo il fiume che davano da mangiare a me e ai miei figli. Banane, noccioline americane, qualche anguria da vendere al mercato. A noi bastava. Ora non abbiamo più niente.

Il fiume ha cambiato corso e ha inondato tutto. I campi che sono sopravvissuti sono sterili, perché l’acqua ha reso tutto sabbia”. Le chimicità usate dalla fabbrica ossidano tutto, pietre, piante. Uno strato rosato che copre ogni cosa, e la spegne. “Non sappiamo come andare avanti – dice Donna Helena, nonna allegra e speranzosa, forse l’unica a sognare un futuro per i suoi due nipoti – per il Governo noi non esistiamo”. Ma non per i paramilitari, che fin dagli anni ’80 minacciano la popolazione tenendola sotto una cappa di paura costante. Eserciti irregolari e senza scrupoli, al soldo delle famiglie latifondiste e delle multinazionali.

Qui la “Locomotora minera”, la locomotiva mineraria promossa del presidente colombiano Santos, mostra la sua faccia più sincera: in nome di un ipersfruttamento delle risorse del Paese per produrre energia, oro, petrolio, che producono una ricchezza che non arriva al popolo, il Paese versa in gravissime condizioni ambientali e sociali. Gli sfollamenti interni hanno raggiunto i 10 milioni di persone su una popolazione di 45, e nonostante i negoziati di pace in corso all’Avana fra Governo ed eserciti rivoluzionari (Farc) per porre fine a mezzo secolo di conflitto interno, la tensione sociale non diminuisce ma anzi aumenta in proporzione alle ingiustizie che vengono perpetrate in tutto il Paese.

Dopo qualche giorno di incontri, esami, raccolta di materiali, denunce e testimonianze che verranno presentate anche davanti al Tribunale Interamericano per i Diritti Umani, ce ne andiamo con le spalle pesanti. Qui la cooperazione Internazionale non può esimersi da una visione politica dell’economia globale, finanziarizzata e biocida. Deve trovare soluzioni, anche piccole, che siano inserite in un ragionamento complessivo e non ipocrita. Abbiamo responsabilità precise e precisi doveri. Il nostro stile di vita è direttamente connesso con la povertà e gli assassinii. A questo, per chi ancora se lo chiede, servono questo tipo di percorsi.

Gente che non ha diritti e viene tritata fra le mille guerre dell’acqua che attraversano il mondo, ha ancora voglia di lottare e resistere. Noi appoggeremo insieme ad altre organizzazioni questi processi di rafforzamento e coscientizzazione comunitaria. Il Watergrabbing – l’accaparramento delle risorse idriche – deve essere fermato. Se ne parlerà anche a Trento, il prossimo primo di aprile, presso la sala Video del Centro Santa Chiara, insieme ad ospiti internazionali, al Cospe che promuove la campagna, e a noi, che racconteremo del rumore sordo che produce un fiume che muore.

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