La Catalogna del dopo Consulta (III)

Le sinistre catalane e il processo di autodeterminazione.
Prima puntata
Seconda puntata

Tra le tesi in gioco sul come dar seguito alla consulta del 9 Novembre si è verificato il classico pareggio tecnico. Tra CDC e Governo catalano, che chiedevano elezioni autonomiche immediate e la presentazione di una lista unica indipendentista, ed ERC, che rivendicava l’avvio immediato di una serie di misure unilaterali a partire della legalità autonomica, si è arrivati ad una terza via, quella dell’accordo per la celebrazione di nuove elezioni autonomiche il 27 settembre che dovrebbero avere un carattere a metà strada tra costituente e plebiscitario a favore delle forze indipendentiste. Ciononostante, a tutt’oggi non sono chiari né la road map né il programma minino con cui i partiti affronteranno questo oramai ennesimo episodio del proceso soberanista. Uno scenario profondamente condizionato dalla precampagna per le municipali del mese di maggio, che genereranno una nuova o rinnovata mappa dell’articolazione e appoggio a livello municipale delle forze indipendentiste, a cominciare da Barcellona.

Il lento incedere del processo è comparativamente tale se la confrontiamo con altri recenti processi di autodeterminazione. Ciononostante, come già proposto in articoli passati, potrebbe anche essere un segnale (non il solo) della virtualità di un processo in cui non tutti gli attori che si dichiarano indipendentisti o che così vengono catalogati sono davvero tali o hanno gli stessi obiettivi finali. Un’altra ipotesi sarebbe quella della competizione egemonica ossia del rallentamento del processo non tanto per le difficoltà insite nella relazione e assenza di possibilità di negoziato con il governo di Madrid bensì per la stessa competizione tra le forze catalane per l’egemonia sul processo e (soprattutto) sul dopo. Chi dovesse traghettare la Catalogna verso un nuovo accordo con Madrid o la costruzione di un nuovo stato sovrano avrebbe assicurata per alcuni lustri le chiavi del potere o perlomeno un notevole patrimonio di egemonia e credibilità sociale.

 

Qualunque sia l’interpretazione giusta (forse un insieme di tutte queste), l’indipendentismo, o per meglio dire il soberanisme come si chiama da queste parti, non pare aver saputo capitalizzare al meglio il patrimonio proveniente dalla mobilitazione della consulta del 9 novembre 2014. Forse più per i demeriti del catalanismo che non per i meriti dei partiti spagnolisti e del governo di Madrid, il processo è praticamente fermo. Inoltre pare esser operativo anche in Catalogna quello che potremmo definire come il fattore Podemos: una nuova speranza per il futuro dello Stato-nazione chiamato Spagna dinnanzi alla doppia crisi istituzionale e politica che in questi ultimi anni ha accompagnato quella economica. Le speranze generate “a sinistra” dall’apparizione di Podemos e dalla sua spregiudicata maniera di aggredire in nodi della politica spagnola pare stiano convincendo gli indecisi a tornare a scommettere sull’idea si Spagna come stato efficiente e nazione fattibile. L’ultimo sondaggio del CEO (Centre d’Estudis d’Opinió http://ceo.gencat.cat/ceop/AppJava/pages/index.html), il primo dopo la consulta, vede i favorevoli all’indipendenza sostanzialmente stabili (44,1% rispetto al precedente 44,5%) e segna una diminuzione degli indecisi a favore dei contrati, che passano dal 45,3% al 48%. Ovviamente questi dati vanno sempre inseriti al centro reale dalla questione: la volontà maggioritaria a favore della celebrazione di un referendum, a prescindere dall’intenzione di voto, che configura i contorni di una rivendicazione che va ben oltre la semplice “sovranità nazionale”.

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Ciononostante, la stima del voto delle prossime autonomiche fatta sulla base dell’intenzione diretta di voto ci consegna un Parlament de Catalunya assolutamente sconvolto rispetto agli equilibri attuali. La coalizione di centro-destra tra liberali e democristiani, CiU, già in discesa precedentemente, crollerebbe dal 30,7% e 50 seggi al 19,5% e 31 seggi. Quello che però non dice il sondaggio è quanti voti prenderebbero i due partiti che la compongono nel caso non remoto questi dovessero prateciparvi separatamente. Tra le ragioni del calo, oltre quelle già suggerite nei precedenti articoli, potrebbe esserci anche la tensione tra CDC e UDC, ai ferri corti da mesi. Continua l’ascesa di ERC, anche se in ribasso rispetto alle europee, dal 13,7% e 21 seggi al 18,9% e 30 seggi. Terzo partito del parlamento catalano sarebbe Ciutadans (CS), anch’esso in ascesa, dal 7,6% e 9 seggi al 12,4% e 16 seggi. Al quarto posto fa irruzione Podemos (12,2% e 16 seggi), anche se in flessione rispetto a precedenti sondaggi e molto lontano dalle cifre spettacolari che gli vengono attribuite nel resto della Spagna. Il PP scenderebbe dal 13% e 19 seggi al 10,2% e 13 seggi. Il risultato dei socialisti PSC-PSOE, a lungo alternativa al pujolismo nel bipolarismo imperfetto catalano, confermerebbe il vero e proprio tracollo degli ultimi anni, dal 14,4% e 20 seggi all’8,2% e 11 seggi. I socialisti sarebbero incalzati dalla CUP, dal 3,5% e 3 seggi al 7,3% e 10 seggi, che non sembra soffrire troppo l’effetto Podemos, cosa che invece accade nel caso degli eco-socialisti (e postcomunisti) di ICV-EUiA, che calano dal 9,9% e 13 seggi al 5,8% e 6 seggi.

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Si tratterebbe di un parlamento ancora una volta a maggioranza di sinistra, sia in voti che in seggi, però con un flessione sul fronte voti nell’appoggio all’autodeterminazione. Anche se lo stesso studio avverte che l’appoggio all’autodeterminazione risulta attraversare anche partiti che fanno fatica a dare un appoggio chiaro a questa eventualità. Il 24,3% degli elettori d’ICV-EUiA e il 15,2% di quelli di Podemos si dichiarano direttamente favorevoli all’indipendenza.

Il sondaggio, che prevede una partecipazione del 68% degli aventi diritto, conferma la scomodità da parte della destra catalana in questo processo di autodeterminazione e sembrerebbe introdurre un elemento nuovo: la sostituzione dei due vecchi partiti classici statali (PP e PSOE) da parte delle nuove proposte nazional-rigenerazioniste spagnole di CS e Podemos. Nei settori e partiti che appoggiano il processo tali sondaggi sono stati letti in maniera molto preoccupata, magari anche con una certa sorpresa. A noi sembra chiaro che non esistono identità nazionali stabili e ancor meno lo sono quelle che non hanno uno stato-nazione alle spalle quindi, è facile che l’indipendentismo smetta di essere mainstrem o di essere percepito come l’opzione migliore o addirittura l’unica via di soluzione dei problemi politici e sociali del paese. La preoccupazione dell’indipendentismo trasversale (o di quello che generalmente si riconosce come tale, che non è la stessa cosa) si è materializzata nella celebrazione di un incontro quasi d’urgenza subito dopo la pubblicazione dello studio del CEO. L’incontro ha prodotto un preaccordo trai partiti CDC, ERC, EUiA e MÉS (Moviment d’Esquerres), le entità civiche ANC e Omnim Cultural e l’AMI (Associació de Municipis per la Independència, http://www.municipisindependencia.cat/). Non hanno partecipato all’incontro né firmato l’accordo né i compagni di coalizione elettorale di CDC e EUiA, UDC e ICV, né la CUP. Il testo, in realtà, non fa alcun riferimento all’indipendenza bensì parla di stato e repubblica catalana. Un fatto che potremmo interpretare come la volontà di mettere al centro dell’agenda politica non già l’indipendenza bensì il diritto di autodecisione, in vista di una legislatura cui si da il senso di costituente. Ma costituente di cosa in concreto? Da questo punto di vista non sfugge a nessuno che le prossime elezioni autonomiche e la legislatura che da esse scaturirà dovranno confrontarsi con i risultati elettorali delle municipali di maggio e con la lunga campagna verso le elezioni politiche spagnole di novembre. A seconda dei futuri movimenti politici, tanto dell’elettorato interno quanto di quello spagnolo e della futura composizione del nuovo esecutivo di Madrid, il processo catalano potrebbe prendere una strada oppure un’altra: imboccare definitivamente il cammino verso la separazione o ridefinirsi in un processo di partecipazione all’eventuale cambio politico spagnolo sulla base di un “nuovo patto” Catalogna-Spagna.

In questa terza parte del nostro percorso attraverso la Catalogna del dopo consulta, però, ci occuperemo di altro. Di un certo interesse sono i dati dello studio del CEO che si concentrano sull’autodefinizione per “ideologia politica” dei catalani: indipendentista (24,8%), socialista (17,4%), progressista (14,4%), ecologista (12,2%), apolitico (12%), liberale (11,2%), socialdemocratico (10%), femminista (7%), conservatore (6,9%), nazionalista (6%), democristiano (5.6%), comunista (2,9%).

Ovviamente l’indipendentismo non è un’ideologia, come non lo è il nazionalismo. Inoltre, il campo delle autodefinizioni è popolato da grandi equivoci ma vi sono alcuni elementi che è necessario rilevare, peraltro assolutamente visibili a occhio nudo. In primo luogo, le sinistre o le nuove sensibilità socio-politiche nell’ambito della sinistra sono ampiamente maggioritarie. In secondo luogo, la società catalana pare aver assorbito la differenza che molti intellettuali spagnoli di grande prestigio fanno fatica a declinare: l’indipendentismo non è sinonimo di nazionalismo.

Se teniamo conto del fatto che viviamo in società nazionali e nazionalizzate dovremmo anche tener presente le conseguenze di questo. Mettere in discussione la nazione ufficiale (di stato) in uno stato-nazione consolidato significa metterne in discussione l’autorità e di conseguenza le sue stesse basi sociali e interessi sui quali è costruito.

Abbiamo già più volte insistito sul fatto che in questa situazione si da il paradosso fuorviante che porta a considerare, ad esempio, il governo autonomo catalano come una sorta di autorità non-sottomessa e disobbediente e le forze che lo sostengono come dei partiti antisistema. Ovviamente non è così. Si tratta delle torsioni causate dalla situazione politica a far giocare a determinati partiti dei ruoli che normalmente non gli spetterebbero. CDC non è certo nata come forza disobbediente e sovvertitrice dell’ordine costituito. È possibile che in condizioni particolari, come quelle che viviamo oggi i Catalogna, possa darsi un miraggio politico di questo tipo ma la realtà è un’altra. In molte questioni sociali, in materia di privatizzazioni e tanto altro la coalizione CiU ha votato assieme al PP al Parlament. Inoltre, in un altro momento centrale della storia contemporanea della Catalogna, l’allora appena costituita CDC si presentava come socialdemocratica, più perché affascinata dal modello di successo dei paesi nord-europei che non attraversata da concrete definizioni ideologiche. Non è un caso che i due documenti in preparazione per il prossimo congresso del partito, previsto per luglio, si presentano rispettivamente come espressione di una corrente socialdemocratica e di un’altra liberale.

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La questione dell’autodeterminazione come processo di cambio sociale profondo e, al tempo stesso, come sfida democratica, è stata di recente messa in risalto da Ferran Requejo, professore di scienze politiche presso l’Universitat Pompeu Fabra. Certamente con una visione molto allargata della sinistra, forse a tratti concettualmente discutibile, Requejo relaziona in maniera molto stretta l’attuale processo con la conquista di una democrazia più compiuta. L’elemento identificatore di questa sinistra sarebbe la qualità democratica sostenuta da un nuovo (o rinnovato) progetto di welfare. Attorno a questi due assi dovrebbe infatti ruotare l’unità dei partiti catalani a favore del processo nonché la costruzione delle famose “strutture di Stato” previe all’indipendenza. La peculiare struttura di partiti catalana permetterebbe un ampio accordo sulla base di un’egemonia che potremmo definire social-laburista: rafforzare le politiche in materia di sanità, educazione, pensioni e servizi sociali, combattere i differenti tipi di povertà, le disuguaglianze e l’esclusione sociale. Forse con un certo grado di ottimismo ma non senza alcuni elementi interessanti di riflessione Requejo sostiene che, proprio grazie alle particolari condizioni proprie di un processo di autodeterminazione, si danno le condizioni affinché anche la stessa coalizione di centro-destra, CiU, o perlomeno CDC possano rientrare in questo accordo sul welfare. Orbene, fino a questo momento nulla di tutto ciò è ancora accaduto però il voto di sinistra è in crescita, maggioritario, e a quanto pare solo un’ipotesi di rottura con l’attuale sistema statuale potrà propiziare un cambio più o meno sostanziale, più o meno radicale. <<La Catalogna vive un momento decisivo. Ci troviamo dinnanzi all’opportunità di costruire un paese non solo più libero bensì più equo, più democratico e con una chiara proiezione futura>> (Ferran Requejo, País lluire, democràcia de qualitat, in “Ara”, 17/01/2015, p. 24). Quanto afferma il professor Requejo ha un doppio valore: quello dell’analisi fatta da un affermato ricercatore del settore e quella, non meno importante, di una sensibilità pienamente interna, diremmo in parte rappresentativa, dell’intellettualità catalanista un tempo autonomista e oggi favorevole all’indipendenza. Su questioni vicine a queste ma con una riflessione più generale, Requejo ha pubblicato in italiano un interessante saggio (I fronti deboli del pluralismo politico. Le minoranze nazionali e culturali in Europa, in “Nazioni e Regioni”, n. 1/2013, pp. 21-33) disponibile online sul sito stesso della rivista “Nazioni e Regioni” (www.nazionieregioni.it).

Il catalanismo socialdemocratico

Probabilmente se tutte le sinistre catalane fossero catalaniste in egual misura o se vi fosse tra esse consenso attorno alla celebrazione di un referendum sul futuro politico della Catalogna (a prescindere ovviamente dal tipo di posizione circa la secessione) la situazione sarebbe forse differente. Forse avremmo un governo di sinistra alla Generalitat e la destra sarebbe ancor più in difficoltà. La complessità stessa dello scenario politico catalano non ha permesso la realizzazione di questo scenario.

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All’incrocio di una fedeltà ideologica e nazionale superata dal momentaneo fallimento della via autonomista la sezione catalana dei socialisti spagnoli, il PSC-PSOE, vive una profonda crisi interna, che alcuni già considerano come paradigmatica della crisi generale di tutto il PSOE (Brais Martínez, El ‘procés’ agrieta el PSC, in “La Marea”, n. 25, marzo 2015, p. 19). Quelle che un tempo furono le due anime del partito dei socialisti catalani, quella di stretta osservanza nazionale spagnola e quella di tradizione catalanista, e che durante la Transizione avevano trovato un modus vivendi attorno allo sviluppo dell’autonomia catalana verso ipotesi federalizzanti, hanno sostanzialmente smesso di convivere. Il partito, che aveva scommesso per la riforma dello statuto catalano nel 2003 ha di fatto trovato poca udienza di fondo nella stessa dirigenza nazionale del PSOE. Le conseguenze di quel fallimento e la scarsa capacità di adattarsi al nuovo scenario ci consegna oggi un PSC-PSOE irriconoscibile. Il partito che nel 1999 aveva conquistato 52 deputati al Parlament, facendo quasi presagire un futuro sorpasso nei confronti di CiU, oggi ne ha meno della metà, 20. Pare che il crollo dei socialisti vada di pari passo con l’allontanamento della società civile catalana rispetto alla Costituzione spagnola del 1978 (a suo tempo fortemente voluta dal catalanismo come dimostrano i più recenti studi e ricerche storiografiche: MOLINERO, Carme – YSAS, Pere, 2014, La cuestión catalana. Cataluña en la transición española, Crítica, Barcelona) e quella desconexió diffusa che ha smesso di far pensare molti catalani in termini regionalisti o autonomisti, con la fine di quell’auto-percezione come spagnoli che sempre aveva convissuto con l’identità catalana. Il PSC-PSOE ha perso voti, prima, e adesso perde anche pezzi. Aree, correnti critiche, piattaforme di militanti autoconvocati, consiglieri comunali, parlamentari autonomici, figure anche importanti e rappresentative della storia del partito, vanno abbandonando alla spicciolata una barca che sembra essere alla deriva. Spesso nelle critiche di questi settori la questione nazionale, l’idea di essere rimasti al margine del processo politico a favore della rivendicazione del diritto all’autodeterminazione, si affianca a quella del mancato rinnovamento del partito, della sclerosi istituzionale ed organizzativa, della denuncia dei casi di corruzione, di una tendenziale abdicazione ai valori originari e di riferimento del socialismo.

Possiamo parlare di vera e propria diaspora socialista. Fa un certo effetto vedere persone che fino a dieci anni fa facevano parte della dirigenza del partito o erano ministri della Generalitat nel governo di coalizione con ERC e ICV-EUiA (2003-2010) sono oggi fuori dal partito.

I primi ad andar via furono quelli di Avancem (http://avancem.cat/) nel 2012. Subito dopo figure importanti come Ernest Maragall escono dal partito e costituiscono il gruppo Nova Esquerra Catalana (NEC, http://www.novaesquerracatalana.cat/). Nel novembre dell’anno scorso altri dirigenti e parlamentari socialisti come Marina Geli, Montserrat Tura e Antoni Castells, tutti exministri autonomici e promotori della piattaforma Moviment Catalunya, fondano assieme a la NEC di Maragall il Moviment d’Esquerres (MES, Movimento di Sinistra). L’associazione Socialisme, Catalunya i Llibertat (SCL, http://www.socialismecatalunyallibertat.org/) dell’ex deputato socialista Toni Comín, decide anch’essa dopo un lungo travaglio di abbandonare il partito ed entra a far parte del Pacte Nacional pel Dret a Decidir (http://www.dretadecidir.cat/). Il progetto di fondo di queste forze è quello di partecipare pianamente “da sinistra” al processo di autodeterminazione con l’obiettivo di (ri)costruire una sinistra catalana di tipo socialdemocratico europeo capace di governare il paese, di esserne il centro politico, sia questo in futuro uno stato indipendente sia una nuova entità sub-statale spagnola con maggiori competenze. Questo spazio politico aspira a governare da sinistra la Catalogna del futuro e i suoi valori di riferimento non sono lontani da quelli citati da Requejo. Sebbene a livello locale, e la politica municipale riserva sempre sorprese, si stiano dando casi anomali, come l’ingresso di alcuni membri di Avancem nelle liste di CiU, i socialisti catalani non stanno solo perdendo grandi nomi, dirigenti e leader di area o corrente, ma stanno anche perdendo muscolatura a livello locale e di base. Da questo punto di vista sembra esservi una generale tendenza a riaggregare quest’area politico-ideologica attorno a ERC o a costruire con questa le basi di un nuovo soggetto politico della sinistra catalana, uno spazio politico che potrebbe essere decisamente maggioritario in uno scenario politico normalizzato, cioè con la questione nazionale risolta ed archiviata in un modo o nell’altro. Ad esempio in occasione delle elezioni europee del maggio 2014 la NEC ha forse contribuito (non è dato sapere in che misura) al sorpasso da parte di ERC nei confronti di CiU (23,67% contro 21,86%). In vista delle elezioni municipali di maggio ERC ha stretto rispettivi accordi elettorali con Avancem, SCL e MES. Questi potrebbero anche essere l’inizio di un processo di confluenza delle forze socialdemocratiche, laburiste e liberalsocialiste e potrebbero segnare la definitiva marginalizzazione del PSC-PSOE e consolidare il ruolo di ERC come forza maggioritaria della sinistra riformista catalana.

segue.



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