Garissa e le sue trappole

Quali sono state le reazioni all’attacco degli shabaab in Kenya?
E nel nostro Paese? Un’analisi sorprendente e preoccupante

«Per contrastare il terrorismo è inevitabile il risvolto militare. Qualcuno potrà scandalizzarsi, ma questi gruppi vanno affrontati anche sul piano militare. Non userò la parola combattere, altrimenti mi ritrovo nei panni del crociato…».

«Reagire d’impulso a una crisi può solo innescare ancora crisi – un circolo vizioso che spinge a versare del sangue da entrambe le parti, senza un vincitore assoluto».

Queste due frasi sono state pronunciate, o scritte, negli stessi giorni: quelli immediatamente successivi al massacro di Garissa, nel nord del Kenya, dove 148 tra studenti e personale dell’università locale hanno perso la vita il 2 aprile scorso. Una è apparsa sul principale quotidiano di Nairobi, una sul più blasonato giornale italiano. Ma non in quest’ordine.

 

A sconsigliare reazioni d’impulso è stato in effetti, sul kenyano Daily Nation, John Walubengo, esperto di sicurezza dell’informazione ed editorialista. A giudicare inevitabile la via militare – percorsa, per l’ennesima volta, nelle stesse ore dall’aviazione di Nairobi contro postazioni dei miliziani somali fondamentalisti di al Shabaab che avevano rivendicato l’attacco a Garissa – era invece il ministro italiano degli Esteri, Paolo Gentiloni, parlando con il Corriere della Sera. L’inversione paradossale delle parti, tuttavia, si era già verificata persino ad attacco ancora in corso.

La stampa italiana sembrava impegnata a inseguire resoconti di decapitazioni – poi in gran parte smentiti – capaci di avvicinare gli shabaab allo Stato Islamico che ora sembra essere l’ingrediente irrinunciabile di ogni conflitto.

In Kenya, invece, la scena mediatica – e in parte anche quella dei social network – insisteva su un altro filone, quello della sicurezza, delle misure non prese o tardive (come l’intervento dell’esercito avvenuto con ore di ritardo), delle responsabilità presenti e storiche di un governo che non per la prima volta si trovava esposto a simili critiche.

Reazioni diverse, perché diverse erano le ferite – metaforiche in Italia, reali in Kenya – da cui le due opinioni pubbliche si sentivano colpite. Per i kenyani l’attacco di Garissa era «un’altra Westgate»: un assassinio di massa portato avanti a sangue freddo e con terrorizzante precisione da un’organizzazione intenzionata a destabilizzare quello stesso governo che, dal 2011 la combatte con le sue truppe in Somalia. Un’azione analoga a quella che aveva – appunto – preso di mira il centro commerciale Westgate, nella capitale. Allora, tra il 21 e il 24 settembre 2013, le vittime erano state ufficialmente 67.

 

La parola ‘Westgate’ ha fatto fatica, invece, a farsi strada tra i titoli italiani, dedicati senza eccezione alla «strage degli studenti cristiani» di Garissa. Un’impostazione dettata dai resoconti secondo cui i giovani di religione islamica sarebbero stati separati dai cristiani e solo ai primi sarebbe stata risparmiata la vita. Questo modus operandi, in effetti, era già stato impiegato in altri attacchi – come quelli di fine 2014 nella contea di Mandera, non distante da Garissa – proprio da al-Shabaab, che tuttavia nel corso delle azioni in Somalia non si fa scrupolo di uccidere praticamente solo uomini e donne di fede islamica.

E se nel caso di Mandera erano stati proprio esponenti della Chiesa cattolica a specificare che i cristiani venivano attaccati perché identificati col governo di Nairobi, qualcosa di simile è avvenuto anche dopo la strage di Garissa. È stato infatti un giornalista missionario, il comboniano Renato Kizito Sesana a sottolineare che «fra le vittime non sono pochi i musulmani, alcuni addirittura che stavano pregando in una moschea».

Considerando anche questi elementi accanto ai dati del CIA World Factbook (secondo cui i cristiani rappresentano l’82% della popolazione contro l’11% dei musulmani, a  maggior rischio statistico dunque di essere vittime di qualsiasi fatto di sangue) si potrebbe cominciare a guardare alla strage di Garissa con altri occhi.

Ad esempio tenendo conto che è stata perpetrata da un movimento islamico radicale – elemento che nessuno ha interesse a negare, cosa del resto impossibile – molto attento alle conseguenze mediatiche delle sue azioni. Tanto, addirittura, da aver cominciato già da anni a usare a scopo di propaganda, reclutamento e finanziamento social network come Twitter. Andrebbe dunque almeno considerata l’ipotesi che dietro la diffusione di informazioni rivelatesi poi non false, ma solo parzialmente vere (le decapitazioni, l’appartenenza religiosa delle vittime) ci sia una vera e propria trappola comunicativa, orchestrata dai fondamentalisti, in cui molti media sono caduti.

Curioso, semmai, è che – come si è notato all’inizio, a farlo non siano stati quelli locali («… il problema non è religioso. I terroristi possono dirlo, ma mentono. Se il problema fosse stato religioso ci avrebbero attaccato fin dall’indipendenza, ma non l’hanno fatto», si legge in un altro editoriale del Daily Nation), ma quelli occidentali – e in maniera emblematica quelli italiani.

 

Nell’omogeneizzato mediatico nostrano, di cui è un esempio tra tanti l’intervista al ministro Gentiloni – dedicata genericamente alle «persecuzioni dei cristiani» nel mondo, senza eccessive differenze tra i contesti geografici – sono infatti finite persino alcune parole di papa Francesco, che per due volte (durante la Via Crucis del venerdì santo e il lunedì successivo) ha citato, in un contesto ben più articolato, gli abusi subiti dai cristiani in numerosi luoghi. Senza però, in nessuno dei due casi, nominare mai Garissa o il Kenya, a differenza di quanto avvenuto in situazioni analoghe con Paesi come l’Iraq o il Pakistan.

Forse proprio l’uso che si è scelto di fare – da parte di testate di orientamento ideologico anche molto diverso – di questi interventi del pontefice mostra un rischio anche più concreto, per il nostro Paese, di quell’estremismo che è ormai diventato un riferimento obbligato dei nostri timori.

Il pericolo, di cadere, in buona fede oppure seguendo interessi e convenienze del momento, nella rete di quelli che potrebbero definirsi «imprenditori politici della paura».

Cioè quegli esponenti del mondo politico e sociale che da tempo hanno individuato nel ‘diverso’ – e nell’islamico in particolare – un facile bersaglio di cui approfittare per guadagnare consenso e spazio. Anche la loro può essere considerata una trappola comunicativa, uguale ed opposta a quella degli shabaab, che dal fomentare contrapposizioni hanno ugualmente da guadagnare. Cadere nell’uno come nell’altro tranello, quindi, significherebbe farsi dettare un’agenda, seguire priorità altrui, e rinunciare a seguire le proprie. Compresa la – sacrosanta – difesa dei cristiani e dei fedeli di altre religioni, spesso perseguitati senz’altro motivo che quello del loro credo.

 

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