Galeano, dalla parte del cuore

Gianni Mura e il ritratto di uno scrittore poliedrico e appassionato

Galeano aveva scritto: “Non ho un Dio, ma se lo avessi gli chiederei di non farmi arrivare alla morte, ho ancora molto da capire, da camminare. Ci sono lune alle quali non ho ancora abbaiato, e soli che non mi hanno ancora acceso”.
Poi è arrivato un tumore al polmone. E ieri mattina è morto Eduardo Galeano.

La cosa migliore è leggerlo, o rileggerlo, perché ha ancora molto da dire. E chi lo rilegge se ne accorgerà. In un momento come questo, è difficile stabilire se Eduardo Galeano sia stato il più grande o uno dei più grandi narratori sudamericani, ma penso di poter dire che è stato tra i più amati, per una serie di motivi.

Il primo è certamente legato alla militanza politica, quell’impegno che non ha mai abbandonato, legato a uno dei libri che l’ha reso famoso, forse il più noto, Le vene aperte dell’America Latina, che scrisse a 31 anni. Come fanno i predestinati, e secondo me Galeano lo era.

Un predestinato che a 21 anni dirigeva una rivista che aveva tra i suoi collaboratori Mario Benedetti, uno dei più grandi scrittori uruguaiani.
Predestinato a questo mestiere della scrittura, dopo aver fatto una miriade di lavori e lavoretti, come è nella tradizione anche dei grandi scrittori nord americani. Disegnatore di fumetti, imbianchino, impiegato di banca. Esperienza di cui poi ebbe a scrivere che gli aveva insegnato una sola cosa: i rapinatori di banche sono i banchieri, ma per loro l’allarme non ha mai suonato.

Questo libro, le vene aperte dell’america latina, per il suo contenuto, è fortemente anticolonialista, e partiva da prima ancora della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Partiva da quel punto e dalla spoliazione degli indigeni e delle miniere d’oro e d’argento, per arrivare alle spoliazioni delle multinazionali del caucciù, delle banane o del petrolio.

Cioè le ricchezze di un continente erano, a causa della cupidigia altrui, alla base della sua povertà, costringendo questi popoli a restare perennemente poveri, schiavi, senza mai essere padroni del loro destino.

Questo libro è stato proibito per molti anni, al tempo delle dittature in Argentina e Uruguay, e Galeano dovette trascorrere molti anni in esilio. Prima in Argentina, dove finì nella lista nera degli squadroni della morte, e poi in Spagna, dove scrisse alcune delle sue opere migliori.

Negli ultimi anni, non è che Galeano abbia rinnegato questo libro scritto a 31 anni, ma ha dichiarato di non aver voglia di rileggerlo, perché avrebbe avuto bisogno di maggior competenza in materia economica.

Quindi, pur restando un documento assolutamente appassionato e interessante, non gli si può chiedere la perfezione delle cifre, ma è impossibile non ascoltare la forza della protesta. E’ un grande libro, lo stesso che il presidente venezuelano Hugo Chavez regalò a Barack Obama nel 2009, dicendogli di leggerlo se avesse voluto capire tutto dell’America Latina.

Nelle graduatorie degli scrittori sudamericani, probabilmente, il primo posto sarà sempre di Borges o di Garcia Marquez, ma insisto sull’amore che lega Galeano ai suoi lettori. Perché Galeano è stato un poligrafo, che ha raccontato la storia del suo Paese e del suo continente senza essere uno storico, ha raccontato i drammi economici senza essere un’economista, e soprattutto è riuscito, in molti suoi libri, e penso al Libro degli abbracci, o a I figli dei giorni, o nelle sue canzoni, a rendere mitiche le piccole cose di tutti i giorni. A rivalutarle.

Leggere questi libri in cui un racconto non dura quasi mai più di una pagina, e che alcune volte si esaurisce in poche righe, rende l’idea della varietà non solo di linguaggio, ma anche di interessi di Galeano, che pur non era specializzato in nessun genere.

Galeano è anche una specie di nume tutelare dei giornalisti sportivi che non si limitano al quattro quattro due, stella polare assieme a Osvaldo Soriano, che ha scritto dei bellissimi racconti ispirati al calcio, mentre Galeano gli ha dedicato un libro, Splendori e miserie del gioco del calcio.

In questo libro, ha un’intuizione folgorante, quando dice che la storia del gioco del calcio è la storia di qualcosa che passa dal piacere al dovere, riuscendo così a fotografare una realtà senza grandi protagonisti, a eccezione di Messi e del Barcellona di Guardiola, perché tutto è diventato mercantile. Tutto ha un valore e c’è poco spazio per l’arte pedatoria, o prestipedatoria, come avrebbe detto Gianni Brera.

Galeano ha una prosa che definirei lussureggiante, usando un aggettivo un po’ salgariano. Ha un vocabolario fortemente evocativo e sentimentale, che richiama sempre e comunque al ricordo di qualcosa. E lui stesso si definiva ossessionato dai ricordi, raccontando che l’etimologia della parola ricordo veniva da re-cordisda, ossia andare dalla parte del cuore.

Credo che Galeano abbia passato una bella vita di scrittura dalla parte del cuore. Mi sarebbe piaciuto, come in uno dei suoi folgoranti racconti di dieci-dodici righe, immaginarlo mai morto. Oppure morto, ma come certe anguille che non smettono di muoversi, con una testa che continua a parlare. Con una memoria che continua a funzionare. E invece la realtà è più triste.