Giovanni Lai si racconta – 01

Cosa succede se a settant’anni un uomo decide di partecipare a un laboratorio di narrazione e inizia a raccontare la propria vita in Sardegna? Ne escono storie bellissime e aspre, che Q Code ha deciso di raccogliere, organizzare e offrire ai propri lettori a partire da oggi e per alcune settimane.

Giovanni Lai, di origine sarda, ha vissuto mezza vita in Emilia, a Fiorano Modenese. Lo scorso anno, a settant’anni, ha partecipato a un laboratorio collettivo di narrazione insieme a una decina di persone, di diverse età e provenienze. Nel laboratorio ha presentato una serie di racconti: alcuni scritti ad hoc, la maggior parte tratti da una personale e apparentemente inesauribile “raccolta di memorie” alla quale si sta dedicando da alcuni anni. I racconti di Giovanni Lai trasportano il lettore in una Sardegna in gran parte perduta, non diversa, nella sua cultura e semplicità tradizionale, dai mondi contadino altrettanto perduti dell’Italia “continentale”. Un mondo di nonni spicci e lavoratori, che diventano furibondi quando i figli vogliono sposare le serve; di nonne con grembiuli dalle enormi tasche piene di sorprese, di pastorelli rapiti dal miraggio di due pezzetti di cioccolato avvolti nella carta stagnola.


 

Pane e formaggio

Il pane e formaggio che ho portato oggi mi riporta indietro nel tempo, quando da ragazzino andavo a zappettare le piantine del grano che ogni anno seminavamo per avere il fabbisogno del pane per tutto l’anno.

La mia famiglia era composta da undici figli, padre e madre. Totale tredici persone. Perché non ci mancasse il pane dovevamo coltivare due ettari di terreno a grano. Se l’annata era buona producevamo all’incirca 26-28 quintali di grano. Per fare un paragone, se dovessimo coltivare due ettari di grano qui in Emilia la produzione sarebbe di 80 o 90 quintali, con molto meno ore di lavoro, dato che qui il grano si semina poi gli danno una passata di erpice per smuovere la terra e dopo, quando è maturo, si trebbia e si porta a casa. In Sardegna è molto diverso: non appena nel grano cominciano a spuntare le prime foglie, insieme iniziano a crescere anche le erbacce che vanno estirpate con la zappetta. E’ un lavoro molto faticoso, si deve stare sempre con la schiena chinata, con la mano sinistra si protegge la piantina del grano e con la mano destra, che tiene la zappetta, si estirpano le erbacce facendo molta attenzione che la piantina del grano non sia danneggiata oppure estirpata insieme alle erbacce, perché ogni piantina di grano produce da 5 a 10 spighe: se estirpata sarebbe una perdita non indifferente, vuol dire mezzo chilo di grano in meno.

Io avevo dodici anni e per la maggior parte questo lavoro lo dovevo fare io, perciò per parecchi mesi, durante la crescita del grano, ero sempre in campagna. Succedeva che quando terminavo il primo grano che avevo zappettato, l’erba era ricresciuta di nuovo e tornavo ad iniziare da capo. A volte finivo quando il grano era da mietere. Ma alla fine, anche se il lavoro era duro il pane per tutta la famiglia era assicurato. Questo terreno distava 20 km dal mio paese. Io andavo in bicicletta, perciò facevo 40 km al giorno. Quando arrivavo lì non c’era anima viva per un raggio di 4 o 5 chilometri. La campagna era di un verde intenso e i fiori sbocciavano di tutti i colori e dimensioni, la vista era meravigliosa, ma la solitudine mi rendeva triste.

Una mattina arrivai lì e con stupore vidi, in un terreno incolto che confinava col mio, un ragazzino che avrà avuto una decina di anni e custodiva un gregge di pecore. Andai verso di lui e lo salutai, scambiai qualche parola. Ero meravigliato che un ragazzo così piccolo, anche se io non ero molto più grande di lui, potesse stare da solo in mezzo a quella desolazione. Gli feci qualche domanda e appresi che gli era morto il padre da poco e la madre non riusciva a dare da mangiare a lui e ai suoi fratelli che erano più piccoli di lui e in qualche modo lui doveva contribuire al sostentamento della famiglia. Così lo mandarono a fare il servo pastore. Gli dissi che a mezzogiorno, quando io mi fermavo di lavorare per pranzare, se voleva potevamo pranzare insieme. A mezzogiorno trovammo un posto comodo e ci sedemmo. Io tirai fuori dal tascapane quello che mi aveva dato mia madre: due spianate di pane ozierese, che non è come questo di oggi, è un pane morbido, di grano duro, fatto in casa, tipo piadina. Per companatico due gianduie di cioccolata triangolari, avvolte in una carta dorata.

Lui tirò fuori dalla sua tasca, uno zainetto fatto di pelle di capra, tipico dei pastori sardi, un pezzetto di formaggio e un coltello per tagliarlo. Il pane, questo pane, dentro la sacca si fa tutto a briciole. Per prenderlo metteva la mano dentro la sacca e ne tirava fuori un po’ di briciole alla volta. Io mi accorsi che fissava continuamente la mia cioccolata. Capii che ne aveva voglia. Era evidente che il suo mangiare era in prevalenza pane e formaggio. Io, a malincuore, presi la decisione di fare uno scambio: gli dissi che se voleva gli davo la mia cioccolata in cambio del suo formaggio. Il suo viso si illuminò dalla contentezza e mentre assaporava quella dolcezza io pensai che in quel momento si stava dimenticando la sua misera e sfortunata vita.
Per me il suo formaggio fu il più buono che avessi mai mangiato, anche se anche io della cioccolata non ne mangiavo tanto spesso.


 

Vincenzo

Mio nonno si chiamava Lai Vincenzo. Era un uomo piccolo di statura, ma tutto d’un pezzo, molto autoritario, gran lavoratore, e non si piegava a nessun compromesso. Nelle associazioni delle feste paesane o nelle cooperative che a volte si formavano tra agricoltori, lui veniva spesso eletto presidente perché faceva le cose giuste senza favorire nessuno, né amici e né parenti; e quando diceva una cosa la diceva in faccia senza mai abbassare lo sguardo, guardando diritto negli occhi a tutti. Era un uomo con molta esperienza di vita: è emigrato in America per ben due volte, ha partecipato a fare il canale di Panama, e dopo ha lavorato in una fattoria. I soldi che guadagnava li mandava a mia nonna, che li metteva in banca. Qualche amico le consigliava di investirli comprando terreni o pure delle case, ma lei non ha mai voluto farlo. Diceva che quando mio nonno tornava ci avrebbe pensato lui. Mandò molti soldi. Se mia nonna li avesse investiti sarebbe diventata una delle famiglie più ricche del paese. Poi con l’evento della guerra i soldi cominciarono a perdere di valore e quando mio nonno tornò, con i soldi rimasti riuscì a comprare la casa e una bella vigna. L’orto lo prese in affitto da un possidente che glielo voleva vendere, ma lui non lo volle mai comprare. Aveva due buoi col carro e una cavalla che di nome si chiamava Gigina. Si poteva dire che la famiglia di mio padre non era ricca, ma stavano bene da potersi permettere la serva. La prima serva fu mia madre e mio padre se ne innamorò e la sposò in poco tempo, anche contro il volere di mio nonno. Il giorno del matrimonio, il nonno, poiché contrario al matrimonio, prese tutti i vestiti della festa degli altri figli e li chiuse dentro ad una cassapanca e ci si sedette sopra per impedire ai figli di andare al matrimonio. Stette seduto sopra la cassapanca tutta la mattina. Solo il più piccolo dei fratelli, zio Paolo, che era molto vivace, riuscì a prendere il vestito e andare al matrimonio: mio nonno si alzò dalla cassapanca per un bisogno corporale e lui approfittò di quel momento, prese il suo vestito, lo indossò e corse in chiesa e fece compagnia al fratello. Dopo, presero un’altra serva e se ne innamorò zio Antonio, il secondo dei fratelli. Lo stesso. Mio nonno era contrario e anche lui andò da solo a sposarsi. Della famiglia c’era solo mio padre ad accompagnarlo. Il nonno capì che se continuava a prendere delle serve i figli se le avrebbero sposate tutte e in poco tempo non avrebbe avuto la mano d’opera per lavorare la vigna e l’orto e le altre attività che faceva, perciò non prese più serve. Ma aveva anche un altro vantaggio: facendo finta di essere contrario, risparmiava anche la dote che ad ogni figlio avrebbe dovuto dare. Queste cose le so perché mio padre me le ha raccontate, ma anche io ho avuto modo di conoscerlo bene. Da piccolo andavo ad aiutarlo a coltivare l’orto. Io avrò avuto dieci o undici anni, lui una settantina. Mi metteva di fianco a lui e insieme zappavamo la terra e formavamo i solchi per piantare le piantine della verdura. I solchi servivano per fare scorrere l’acqua necessaria ad innaffiarle. L’acqua proveniva da una sorgente naturale che di notte riempiva una grande vasca. La sera, quando calava il sole e la terra si rinfrescava, levavamo il tappo dalla vasca e attraverso un sistema di solchi la facevamo arrivare dove serviva. Quando zappavamo, lui, anche se vecchio, finiva il solco prima di me. Io, essendo piccolo, a malapena riuscivo a sollevare la zappa, ma comunque cercavo di stargli dietro più che potevo perché lui mi diceva: “Non ti vergogni ? ti fai battere da un uomo vecchio!”. In questo modo mi costringeva a sforzarmi ancora di più. Non riuscii mai a finire il solco prima di lui, ma iniziò a lasciarmi da solo a fare i lavori, segno evidente che quello che facevo andava bene. Io lo rispettavo molto e quando c’era lui non toccavo mai niente di quello che cresceva nell’orto, sia frutta o verdura, per paura che mi sgridasse. Lui non mi diceva mai : “Mangiati una prugna” (…un finocchio, una carota, una mela cotogna…). Niente! Molte volte tornavo a casa con la voglia di quelle cose che coltivavo con le mie mani. E la notte ci pensavo. Dentro di me cominciavo a pensare che questa cosa doveva finire. Una mattina presi la decisione: appena arrivati all’orto (mio nonno era di fianco a me), io iniziai a fissare un albero di prugne che stava in fondo all’orto. Era come vedere un albero di Natale: il più bello che avessi mai visto. Non era la prima volta che lo vedevo, dato che giorno per giorno ne avevo seguito la maturazione. Le prugne erano di due colori, una parte gialla e un’altra rossa. I rami sfioravano la terra, piegati dal peso delle prugne. Incantato da quella visione, presi la decisione e senza chiedere il permesso a mio nonno andai diritto verso l’albero, mi misi sotto e ne mangiai a sazietà. Poi tornai vicino a mio nonno e lo guardai in faccia in segno di sfida, aspettandomi una sgridata, ma stranamente non mi disse niente. Anzi, nel suo viso notai una espressione di soddisfazione. Io in quel momento capii: lui aspettava che io da solo prendessi quella decisione. Capii che la sua non era avarizia, ma era stata una lezione di vita.

 

 

 

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