Due inverni / 1

Racconto-reportage a puntate

 

di Carlo Ruggiero

 

Questa è la storia della mia famiglia. O meglio, è un pezzo di storia di una parte della mia famiglia. È la storia di mia madre, dei miei zii e dei miei nonni materni. Ed è una storia di profughi. Persone che sono sfuggite alla guerra e alla violenza. Gente a cui un giorno la Storia (stavolta con la S maiuscola) ha deciso di bussare alla porta di casa. Poi si è portata via la casa. Dopo un po’, s’è portata via anche tutto il resto.

Questa è la storia di due adulti, una ragazzina e tre bambini che hanno viaggiato a lungo, che hanno patito la fame e il freddo. Persone che hanno guardato la morte in faccia più volte, che sono state colpite, rinchiuse, umiliate. No, non sono somalo, non sono siriano, non sono afghano. Non sono nemmeno curdo. Non vengo da qualche paese esotico e lontano. Sono un italiano qualsiasi, e lo era anche la mia famiglia.

Erano di Coreno Ausonio, un paesino di poche anime arroccato sui monti Aurunci, neanche 150 chilometri a sud di Roma. Per circa settant’anni questi fatti sono rimasti sepolti sotto due dita di polvere, annacquati nel chiacchiericcio quotidiano. Poi ho deciso di tirarli fuori, e per farlo ho iniziato a scavare. Quando si scava, però, di solito si suda, ci si sporca le mani. E c’è sempre il rischio di graffiarsi. La verità è che la Storia (ancora un volta con la S maiuscola) si ripete sempre due volte. La prima come tragedia, la seconda pure.

 

#1 PROFUGHI VERSO IL NORD

Una strana foto, sgualcita, sgranata, nebbiosa. Un trafiletto su un giornale: “Stampa sera” del 15-16 giugno 1944, “XXII dell’era fascista”. Inizia tutto così, con due pezzi di carta stropicciata, roba vecchia, scovata nel fondo di un cassetto tutto scheggiato. È l’estate del 2002, e il cassetto è quello di mia nonna. È il giorno del suo funerale.

– Le cannonate, sì, proprio le cannonate…

Zio Argentina, s’asciuga gli occhi. Non si capisce se rida o se pianga. Forse fa entrambe le cose insieme, mentre scherza su quanto fosse diventata sorda sua madre negli ultimi tempi.

– Per svegliarla ormai ci volevano le cannonate – grida.

Anche lei ha più di qualche problema di udito. Ma è una tara di famiglia, prima o poi ci faremo i conti tutti. Un paio d’ore prima, al funerale di Nonna Giovanna c’era tutto Coreno. Santa Margherita era piena fino all’orlo. Poi al cimitero l’hanno messa nel loculo accanto a quello di Nonno Gaspare. Mia madre, Zia Giglia e Zia Argentina hanno anche colto l’occasione per mettere un fiore accanto alla fotografia sbiadita del padre.

Ora la famiglia s’è riunita intorno alla tavola da pranzo. Sembrano tutti un po’ più rilassati. Tutti, tranne Zia Giglia. Lei, che di solito ride sempre, s’è isolata, ha mangiato qualcosa in silenzio, senza mai alzare gli occhi dal piatto. Squilla il telefono, risponde Zio Giona. È di nuovo Zia Linda da Cleveland. Vuole sapere com’è andata, vuole tutti i dettagli. Vuole partecipare, in qualche modo.

– Ma sì, ma non ti preoccupare. Non c’era mica bisogno… A che serviva poi… – dice Zio Giona, mentre s’aggrappa alla cornetta e cerca con gli occhi l’approvazione delle sorelle.

Mi alzo, nessuno fa caso a me mentre comincio a gironzolare per il piccolo appartamento pieno zeppo di mobili in formica. Statuette di ceramica e d’argento ovunque, foto incorniciate, centrini all’uncinetto. Povere cose raccolte in una vita intera. In camera di Nonna Giovanna la finestra è aperta. Entra un po’ d’aria fresca. Sul comodino c’è ancora la pila dei medicinali e il rosario a grani grossi di legno scuro. Spalanco l’armadio. Qualche vestito, tutti neri. L’ho sempre vista vestita a lutto. Apro un cassetto, mentre Zio Giona nell’altra stanza continua a rincuorare sua sorella. Nel cassetto poca biancheria logora, altre medicine, una manciata di monete da dieci e cinquanta lire fuori corso, fazzoletti bianchi ricamati, un mazzo di santini tenuti insieme con un elastico, un pettine sdentato.

Proprio in fondo, una scatola di cartone scuro. La prendo, la apro. È piena di fotografie delle feste di compleanno più recenti. Nonna Giovanna è sempre lì, seduta al tavolo del soggiorno, davanti a una torta ogni volta diversa. Ogni anno, intorno a lei, c’è la sua grande famiglia. Ma in ogni foto sembra più piccola, quasi accartocciata, sempre più assente. L’ultima fotografia che mi ritrovo tra le mani, poi, è diversa. Non è un compleanno, e non è nemmeno recente. È in bianco e nero, sgualcita, coi bordi zigrinati come quelli di un francobollo. Ci sono Nonna Giovanna e Nonno Gaspare, li riconosco anche se sono giovani. Stanno seduti su due seggiole di legno. Nonno indossa un vestito scuro, con tanto di cravatta, colletto rigido e fazzoletto nel taschino. Ha le mani poggiate sulle ginocchia, i capelli imbrillantinati, qualcuno è già bianco. Nonna, invece, è vestita di scuro come al solito, lo sguardo serio e un’acconciatura quasi ottocentesca. Intorno a loro, in piedi, ci sono Zia Argentina, Zia Linda e Zia Giglia. I loro occhi li ritrovo uguali, anche in quei volti da bambina. In realtà Zia Giglia pare già una giovane donna. Sta dietro ai genitori, esattamente nel centro, con le mani sulle loro spalle. Ai suo piedi c’è un bambino con una pettinatura da adulto: scriminatura di lato e chioma lucidissima. Ha i pantaloni corti corti, e si tiene in piedi a stento. Anche a lui hanno messo un piccolo fazzoletto nel taschino. Giovanna gli tiene amorevole una mano. Dev’essere Zio Giona, avrà sì e no un anno e mezzo.

pezzo1 - foto1

Lacchiarella, 1945

È una foto strana. E non solo perché a differenza delle altre, qui nessuno sorride. Sono tutti in posa, rigidi, e guardano dritti davanti a loro. Soltanto Zia Giglia ostenta un sguardo quasi di sfida, già da ragazzina ribelle. Ma è strana soprattutto perché alle loro spalle c’è un’insolita nebbia. Il cielo è livido, e avanza plumbeo tra merli di mattoni a coda di rondine. Tra un merlo e l’altro c’è anche una robusta ringhiera, e dietro s’intravedono dei tetti ricoperti da file di tegole ordinate. Devono essere su una torretta, o sulla cima di un castello medievale. Di certo non sono a Coreno, dove tutto quello che non è stato distrutto dai bombardamenti è in pietra viva, e dove tetti così a regola d’arte non si sono mai visti. Mi rigiro la foto tra le dita ancora per un po’, fin quando non noto sul dorso una scritta sottile sottile, quasi illeggibile. Mi avvicino al cono di luce che proietta il lampadario, aguzzo la vista. La calligrafia è incerta ma curata, quasi infantile. C’è scritto: “Lacchiarella, 1945”.

Torno di corsa nel salotto, con la foto in mano. Zia Argentina e Zia Giglia strabuzzano gli occhi. Pare che abbiano visto un fantasma.

– Quella l’abbiamo fatta a Lacchiarella, vicino a Milano – mi fa Zia Argentina.

Poi vede la mia faccia stupita, e aggiunge: – Nel ’45, quando eravamo sfollati. Tua madre ancora non era nata, ma c’era pure lei. Stava già nella pancia di tua nonna.

Finisce lì. Non è il momento giusto. E non lo sarà a lungo, almeno per me. Dovranno passare ancora parecchi anni prima che quella storia si faccia di nuovo strada nella mia vita. E succederà quando mio cugino Gaspare, il figlio di Zio Giona che porta il nome di nostro nonno, mi avrà inviato quella breve mail. In allegato un trafiletto, pubblicato sulla “Stampa sera” del giugno 1944 e scovato chissà dove. Una volta aperto, rimarrò a bocca aperta. Anche se si tratta di poche righe, strette tra i santi del giorno, l’oroscopo e gli orari dell’alba e del tramonto.

PDF

PDF

Ricerca di profughi: Gaspare Biagiotti di Saturnino, profugo di Coreno Ausonio (Frosinone), attualmente residente a Rubiera (Reggio Emilia), via Trento n.6, ricerca la propria moglie Adriano Giovanna Maria di anni 39 ed i figli Maria Virginia, Pia Argentina, Olinda e Giona, rispettivamente di anni 14, 12, 6 e mesi 18, sfollati da Coreno Ausonio (Frosinone) e inviati verso il Nord.

“Profughi”, “sfollati”, “inviati verso il nord”. Una manciata di parole che mi morderanno a lungo la mente, e che si faranno strada a poco a poco come la punta di un trapano. Poi s’impasteranno con molte altre parole simili che l’hanno già affollata negli ultimi tempi. È in quel preciso istante che questa storia diventerà la mia storia. E che mi ritroverò invischiato in questo faticoso corpo a corpo con il mio passato, con quello della mia famiglia e con quello di questo smemorato Paese. Oramai non ho più scampo, devo rimboccarmi le maniche. Inizio a scavare.

 

Sosteneteci. Come? Cliccate qui!

associati 1

.