Se la sevdah linke sfida i confini di genere

La parabola artistica del giovane interprete bosniaco Božo Vrećo

“… se fossi un balcanico, se fossi un balcone, il balcone balcano” cantava Elio ne “La canzone del I maggio”. Con la fine delle guerre che hanno portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia un nuovo spazio si è creato nella cartina europea: un buco nero, sgangherato, esotico, eccentrico, sanguigno e bizzarro. Dove la gente spara in aria con il kalashnikov per dimostrare la sua ilarità e brinda fino a frantumare i bicchieri. Così sono ri-nati i Balcani come un’idea di ferinità, caos e violenza liberatrice. Tutto quello che spaventa ma allo stesso tempo attrae le società europee riversato in un’area del mondo. Poi sono arrivati Goran Bregović ed Emir Kusturica e hanno venduto un brand da esportazione, che in Europa occidentale ha trovato particolari estimatori. In questo blog offriremo alcuni frammenti culturali dallo spazio jugoslavo e post-jugoslavo che hanno poco in comune, se non quello di riuscire sconosciuti a chi in quei luoghi va a cercare i Balcani.

Già da alcuni anni diversi interpreti di sevdah linke, come Amira Medunjanin e Damir Imamović, hanno rielaborato la musica tradizionale bosniaca ibridandola con il jazz, ma anche la musica d’ambiente o la tradizione musicale dalmata.

La novità dell’ultimo anno però è rappresentata dal gruppo Halka, costruito intorno alle performance vocali del cantante Božo Vrećo, dotato di un incredibile spettro di tonalità vocali, dai toni bassi a quelli di un soprano.

Partendo da questo suo talento, Božo ha trasformato i suoi concerti in performance transgender in cui interpreta sia vocalmente che sulla scena (alternando costumi maschili e femminili) ruoli sia femminili che maschili.

Come lui stesso ha dichiarato, proprio la sevdah gli darebbe la libertà necessaria per essere sia uomo che donna, oscillare tra due estremi che si trovano insiti in ognuno di noi.

Una manifesta “trans-generalità” che è stata per ora Božo ha declinato solo sul piano artistico, senza dichiarazioni attivistiche e senza svelare alcun dettaglio della propria vita privata. Che, tuttavia, ha segnato una vittoria per molti insperata: conciliare tradizione bosniaca con un’apertura dei ruoli di genere, senza incappare in polemiche, odii e aggressione che hanno fino ad ora segnato tutti i tentativi di visibilità della comunità LGBT locale.

Secondo un articolo pubblicato dal portale Balkanist, sarebbe stata proprio per questa inedita sinergia che la figura di Bozo non ha incontrato finora alcuna opposizione nel discorso pubblico: la sua figura presenta la transgeneralità non come qualcosa di arrivato e imposto dall’esterno, dall’estero, ma come un frutto della stessa tradizione culturale bosniaca.

Inoltre, forse l’innesto attuato dal giovane interprete di Foča ha trovato un terreno fertile nella sevdah linke, il fado bosniaco, la musica della malinconia, del dolore di parole sussurrate dietro le finestre, di amori infelici in una società patriarcale, che riesce a cantare oggi il dolore e le difficoltà di chi non si riconosce nella dominante aggressiva normatività eterosessuale in Bosnia Erzegovina.

 

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