Xinjiang: il difficile melting-pot / 2

Seconda parte di un viaggio nel “problema-Xinjiang” a un anno dal lancio della campagna contro i “tre mali”. La politica etnica del governo cinese non è sempre stata la stessa: il clientelismo finalizzato al consenso resta una costante. Tuttavia, negli anni, si è passati dal binomio segregazione-sicurezza alla repressione dura, che si accompagna però a un tentativo nuovo: la strategia delle “tre J”.

di Gabriele Battaglia
tratto da ChinaFiles

La prima puntata

CLIENTELISMO

Fino a qualche tempo fa, le politiche cinesi in Xinjiang si basavano su due strategie.
La prima era (ed è) la creazione di una rete clientelare fondata su flussi di denaro. In tutta la Cina, dalla arcinota hongbao (la bustarella) ai grandi contratti, il trasferimento di moneta sonante punta alla fidelizzazione. Nella periferia cinese, si è assistito a una vera e propria istituzionalizzazione della strategia a partire dal 2000, con il “grande progetto di sviluppo dell’Occidente”: cioè miliardi di dollari in arrivo da Pechino.
“La maggior parte di questi soldi va in grandi progetti infrastrutturali, altri finiscono nella rete clientelare, principalmente nelle tasche della maggioranza han; qualcosa filtra fino alle minoranze, di cui si compra così l’acquiescenza”, commenta Leibold.
Questa strategia offre stabilità, ma di breve periodo. La gente coglie l’opportunità, sistema la famiglia, ma la fiducia o un vero sostegno al governo sono ben altra cosa. Inoltre, il meccanismo clientelare suscita il rancore di chi ne resta escluso.
C’è poi un problema di bilancio. Le aree etniche sono fortemente dipendenti dal trasferimento fiscale: in Tibet, 9 dollari su 10 arrivano da Pechino; nello Xinjiang si parla di circa il 64 per cento del budget locale. Per quanto tempo può continuare questo trasferimento massiccio? Che cosa succede quando si verifica un rallentamento dell’economia?

SEGREGAZIONE E SICUREZZA

La seconda strategia è una riedizione del divide et impera. La Cina è uno dei Paesi più etnicamente segregati del mondo: il 95,3 per cento degli uiguri vive nello Xinjiang. Ma non solo: all’interno della stessa regione autonoma, si concentrano nella parte sud-occidentale. Quanto alle città, per esempio Urumqi, i quartieri dell’etnia turcofona e quelli han sono rigorosamente separati. Anche le altre minoranze cinesi vivono più o meno segregate, ad eccezione degli hui. È un modo per scongiurare l’interazione tra i diversi gruppi etnici.
Dato che alcuni villaggi nella parte meridionale dello Xinjiang sono completamente mono-etnici, in quelle zone anche il controllo ha volto uiguro; soprattutto perché – e si ritorna al clientelismo – l’apparato di sicurezza è una grande fonte di impiego per i gruppi etnici. Ma difficilmente un uiguro o un tibetano salirà ai gradini alti della gerarchia.

La Cina spende per la sicurezza un centinaio di miliardi di dollari ogni anno; è più del bilancio destinato alla difesa. Nello Xinjiang la spesa è aumentata del 3 per cento dal 2009, ma in questi numeri non sono compresi il budget del ministero di Sicurezza Nazionale e quello della polizia militare, per non dire del prolifico settore della sicurezza privata.
Poi ci sono altre tecniche securitarie: telecamere a circuito chiuso e il distaccamento dei funzionari di rango medio presso le comunità locali. Ci vanno in gruppi di 5-8 in modo da avere il controllo del territorio.
È un regime di sicurezza complesso, che ha anche un certo successo nella riduzione dei conflitti. Ma quando questi esplodono, le vittime sono di solito gli stessi membri delle minoranze, da entrambe le parti della barricata. E Xinhua riporta poi che su dieci agenti ammazzati in qualche assalto all’arma bianca contro una remota stazione di polizia, nove erano uiguri. La guerra fratricida è una tecnica-cuscinetto, l’estrema risorsa del contenimento, di fronte al problema di fondo che resta l’incomprensione reciproca e la mancanza di appartenenza a una medesima Cina. E per altro non funziona più. Il 22 maggio 2014, un mercato di strada frequentato soprattutto da anziani han, a Urumqi, è stato scelto come obiettivo di un attentato suicida: due Suv lanciati tra la folla presso Parco del Popolo, spari e ordigni esplosivi, 43 morti e oltre 90 feriti. Forse, gli attentatori volevano rompere simbolicamente il circolo vizioso della guerra fratricida.
Puntare il dito sull’obiettivo: gli han.

REPRESSIONE

L’attacco di Urumqi fu il culmine di una catena di attentati. Il primo marzo 2014 ci fu la strage della stazione di Kunming, Yunnan, un accoltellamento di massa in cui morirono 31 persone e 140 furono ferite. Fu definita “l’11 settembre cinese” ed è stata imputata dalle autorità a “elementi separatisti” dello Xinjiang, cioè indipendentisti uiguri. In tutto il 2014, si calcola che i morti per “incidenti etnici” siano stati almeno duecento, per un numero imprecisato di feriti. All’indomani dell’attacco di Urumqi si scatenò la repressione. Il 23 maggio, un giorno dopo la strage, il governo lanciò una campagna di un anno contro “i tre mali” (san gu shili): “Terrorismo, separatismo ed estremismo religioso”. Dopo sei mesi esatti, a fine novembre, i media di Stato hanno comunicato che 115 “cellule terroristiche” erano già state sgominate, con dovizia di numeri e particolari sui fuggitivi arrestati (334), i “centri di addestramento religioso” chiusi (171, con 238 persone messe in galera) e finanche gli hard disc “collegati all’estremismo religioso” confiscati (2.600).

Pochi giorni dopo, a inizio dicembre, sono arrivate due sentenze in contemporanea.
Nella prima, una corte dello Xinjiang ha condannato otto persone alla pena capitale e cinque alla “pena di morte sospesa” – cioè l’ergastolo – per l’attentato di maggio e per uno di pochi giorni prima, sempre a Urumqi; in un altro processo, sono state inflitte pene tra i 3 e gli 8 anni a sette studenti del professore uiguro Ilham Tohti, già condannato precedentemente all’ergastolo per “separatismo”. I ragazzi erano accusati di avere collaborato con l’ex docente all’università delle minoranze di Pechino nella gestione di un sito, Uighurbiz.net, che faceva soprattutto appello alla comprensione e al rispetto reciproci tra etnie.

Queste due condanne così diverse per la gravità dei “crimini” e così uguali per il pugno di ferro, ci dicono che la politica di sicurezza è diventata repressione dura e pura. Ma ci dicono anche che sui fatti dello Xinjiang è consentita solo una narrazione, quella ufficiale: le violenze sono opera di elementi separatisti con legami all’estero, che si nutrono di fanatismo religioso e che sono organizzati dal Movimento Islamico del Turkestan Orientale, un raggruppamento di cui, a dire il vero, non si è mai saputa la reale consistenza. Le figure moderate, di mediazione, alla Tohti, non possono più starci. Lui, che si è sempre definito “cinese” ma che ha denunciato l’istituzione della legge marziale in Xinjiang è fuori dai giochi. Per sempre.
A fine gennaio 2015, le autorità giudiziarie dello Xinjiang comunicano che nel 2014 sono stati arrestati 27.164 sospetti criminali, con un incremento di oltre il 95 per cento anno su anno, a seguito della campagna contro le attività “violente e terroristiche”. Il 24 marzo 2015, tre uiguri sono giustiziati per “l’11 settembre cinese”: Iskandar Ehet, Turgun Tohtunyaz e Hasayn Muhammad sono messi a morte per “essere [stati] a capo di una organizzazione terroristica e per omicidio volontario”.
Secondo Julie Yu-Wen Chen, docente ed executive editor della rivista Asian Ethnicity, si tratta di una campagna molto “superficiale”, poiché non vi è una chiara definizione di cosa sia il terrorismo. Ma è anche una campagna ben preparata: “Un anno fa – racconta – sono stata contattata da un funzionario della sicurezza che chiedeva la mia collaborazione per creare un centro studi anti-terrorismo. Mi sono rifiutata di aderire, perché la definizione è molto debole. Tutto il mondo è preoccupato per il problema del terrorismo, ma è necessaria una definizione giuridica chiara”. La tecnica di controllo proclamata dal governo va sotto il nome di wanggehua, cioè “reticolarizzazione”, una penetrazione tentacolare: “Fondamentalmente mira a chiunque e non ha nulla a che fare con una società armoniosa. Si sta cercando di scrutare in ogni angolo, di controllare strettamente la vita quotidiana delle persone”, conclude Chen.

XI JINPING: CONTATTO, SCAMBIO E MESCOLANZA

Se la sicurezza è aumentata geometricamente fino a diventata repressione, è però sull’altro fronte, quello della segregazione, che la leadership cinese sembra avere ribaltato completamente la strategia.
Domenica 16 novembre 2014, parte la ferrovia superveloce che collega meglio lo Xinjiang alla Cina storica. Tre ore di treno tra Urumqi e Hami e poi un prolungamento per Lanzhou a fine anno: il tutto, per integrare meglio la provincia occidentale con il cuore del Paese. Il treno, che è il dispositivo materiale e simbolico dell’espansione economica cinese (si pensi alle ferrovie veloci prêt-à-porter che la Cina piazza in mezzo mondo), diventa anche il veicolo dell’integrazione interna.
Un altro treno aveva precedentemente portato in Guangdong oltre mille lavoratori dello Xinjiang. Sono la prima tranche di un programma lanciato dalla provincia più ricca della Cina, che si ripromette di accogliere 5mila xinjianesi nel corso dei prossimi tre anni. È una goccia nel grande mare dei numeri cinesi, ma fa parte di un piano più ampio: quello di diluire il conflitto che percorre la regione nord-occidentale del Paese nelle tre “J” del jiaowang jiaoliu jiaorong, cioè “contatto interetnico, scambio, mescolanza”, il nuovo “principio guida” (tifa) della politica etnica di Xi Jinping.
Il 20 ottobre, il governo del Guangdong ha pubblicato online le linee guida del suo programma. Tra queste, la regola in base alla quale i lavoratori debbano essere sottoposti a “revisione ideologica e politica” e che per ogni cinquanta lavoratori che si trasferiscono ci debba essere un funzionario dello Xinjiang in veste d’accompagnatore.

Ma la vicinanza non crea necessariamente il melting pot. “Molti uiguri lavorano nelle fabbriche del Guangdong da anni – dice Julie Yu-Wen Chen – ma i problemi continuano a esserci. Non si dimentichi che l’incidente del 5 luglio fu causato da un conflitto tra operai han e uiguri proprio in quella provincia”. Sì, la rivolta del 2009 a Urumqi, che si estese ad altre città dello Xinjiang per diversi giorni, fu proprio innescata dalle violenze esplose tra lavoratori di diverse etnie in una fabbrica di giocattoli del Guangdong. Scatenate da una presunta molestia sessuale, provocarono la morte di almeno due uiguri (un centinaio secondo le testimonianze dei compagni presenti sul posto).

 

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