Migrazione e asilo ai tempi dell’esternalizzazione

Dopo l’ennesima strage del Mediterraneo le migrazioni sono tornate al centro del dibattito pubblico. Entrambe le rive hanno iniziato ad essere inquadrate nella cornice della “Fortezza europa”. Ma come si posizionano i paesi della sponda sud?

di Debora Del Pistoia, da Tunisi
tratto da Osservatorio Iraq

Dopo l’ennesima strage del Mediterraneo le migrazioni marittime sono tornate al centro del dibattito pubblico europeo. La trattazione offerta, tuttavia, è spesso superficiale e banalizzante. Per questo diventa ancora più urgente interrogarsi sulle politiche di esternalizzazione delle frontiere e sulle procedure di identificazione dei migranti, soprattutto da quando entrambe le rive hanno iniziato ad essere inquadrate nella cornice della “Fortezza europa”, una fortezza ben difficile da rimettere in discussione.

In questo contesto si posiziona la Tunisia, paese ad oggi pilastro nel contrasto all’immigrazione verso le coste Europee, definita ancora “illegale e clandestina”. Ma come si posizionano i paesi della sponda sud del Mediterraneo?

La lotta contro le migrazioni illegali e il controllo rafforzato alle frontiere per bloccare i migranti in arrivo verso i paesi europei, gestiti dai paesi della sponde sud del Mediterraneo come la Tunisia, la Libia e il Marocco, hanno fatto avanzare progressivamente il processo di esternalizzazione della politica migratoria europea sin dalla fine degli anni ’90.

Anche la Tunisia, definita dai maggiori analisti politici a livello internazionale come il “laboratorio della democrazia” e delle pratiche dei diritti nel mondo arabo, torna ad essere al centro di sperimentazione politica.

Questa volta si tratta dei progetti di esternalizzazione delle procedure di asilo dell’Unione Europea, in cui la Tunisia, insieme ad Egitto, Marocco, Niger e Sudan, viene inserita nella lista dei paesi pilota in cui testare l’apertura di centri di “accoglienza e identificazione” dei migranti.

Tunisia ed Egitto sarebbero, inoltre, i due paesi terzi con cui l’Europa prevede di firmare accordi bilaterali per impegnarsi ad effettuare attività di Search and Rescue e di sorveglianza marittima nello spazio Mediterraneo.

In questo caso, le imbarcazioni di migranti provenienti dalla Libia dovrebbero essere intercettate dalla Guardia Nazionale Tunisina, corpo militare specializzato nel garantire la sicurezza nelle zone rurali e non urbane, con l’obiettivo di trasferire i migranti sul territorio tunisino per effettuare le procedure di esame delle domande di asilo e la gestione dei potenziali rifugiati, con il supporto delle organizzazioni specializzate, concretamente OIM e UNHCR.

 

In Tunisia, questo processo di cooperazione bilaterale viene da lontano, radicato a partire dagli obiettivi della firma del partenariato privilegiato con l’Unione Europea siglato il 19 novembre 2012.

Questo partenariato era, sin dall’inizio, destinato a fissare un quadro nel quale sarebbero stati negoziati durante il 2013 gli accordi settoriali e tematici. Tra questi, l’Accordo di libero scambio completo e approfondito (ALECA), ma soprattutto il partenariato per la Mobilità (Mobility Partership), sancito il 3 marzo 2014 e focalizzato sulla gestione comune e sulla co-responsabilità dei flussi migratori, oltre al sostegno da parte europea alle autorità tunisine nella creazione di un sistema di protezione dei rifugiati e richiedenti asilo sul territorio magrebino.

Tra i primi Paesi a rafforzare i rapporti con la Tunisia in materia di migrazioni si annovera l’Italia, con la firma dell’accordo bilaterale nel giugno 2014. La svolta cruciale nel controllo congiunto dell’immigrazione irregolare e nella costruzione di uno spazio di “pre-frontiere” europee nei paesi terzi, tuttavia, si registra proprio con l’attuale progetto di cooperazione per l’esternalizzazione delle procedure di asilo e intercettazione dei migranti.

Sull’onda del processo di Rabat del 2006, con la Task Force per il Mediterraneo, istituita nell’ottobre del 2013, si avvia una nuova fase di esternalizzazione delle frontiere europee nei paesi terzi, poi rilanciata con la firma del processo di Khartoum il 28 novembre 2014 a Roma, che stravolge l’approccio al fenomeno migratorio mirando a “delocalizzare” la gestione dei flussi migratori dai paesi europei ai paesi di transito e origine.

Durante il Consiglio “Giustizia e Affari Interni” dell’Unione europea del 12 marzo 2015, sarà poi il ministro dell’Interno italiano Angelino Alfano a proporre una cooperazione dell’UE con i paesi terzi considerati “affidabili”, per garantire la “sorveglianza marittima” del Mediterraneo, le operazioni di Search and Rescue e le procedure di rimpatrio nei paesi di origine.

Nel quadro di una progressiva esternalizzazione delle pratiche di asilo e delle responsabilià corrispondenti, Egitto e Tunisia vengono quindi scelti come primi banchi di prova per ridurre l’arrivo dei richiedenti asilo in territorio europeo ed effettuare la lotta contro i trafficanti di esseri umani.

Il contrasto all’immigrazione irregolare e la protezione dei rifugiati, questioni chiave delle politiche europee delle migrazioni, vengono oggi ripensate alla luce della lotta contro i trafficanti di migranti, coinvolgendo anche paesi africani guidati da “regimi dittatoriali” (è il caso, per esempio, di quello eritreo, coinvolto nel processo di Khartoum).

Mentre le proposte che mirano a realizzare politiche di esternalizzazione delle procedure di asilo nei Paesi di transito dei migranti si fanno sempre più reali, cosa accade realmente sulla sponda sud del Mediterraneo?

 

Un approfondimento sulla situazione dell’accoglienza e della gestione dei flussi appare oggi più che mai necessario per inquadrare e problematizzare il fenomeno del controllo e tamponamento “delocalizzato” delle frontiere europee.

Solo alzando lo sguardo dallo spazio marittimo e allungandolo fino alla nuova frontiera europea sulla sponda sud, è possibile comprendere a che punto questi territori di “contenimento” dei migranti possano rappresentare dei punti di non ritorno per moltissimi di loro che, raggiungendo queste terre di passaggio, si ritrovano ingabbiati in sistemi di accoglienza poco chiari, pratiche di carcerazioni illegittime, rimpatri nei Paesi di origine e deportazioni sommarie.

La Tunisia ha sperimentato il fenomeno migratorio in maniera massiccia a partire dal 2011 e rappresenta un esempio importante di un Paese che, dopo essere stato a lungo terra di emigranti, è ormai divenuto paese di transito per migranti e richiedenti asilo.

Solo un mese dopo la caduta del regime dittatoriale di Ben Ali e l’ondata migratoria di tunisini verso l’Italia, la Tunisia si è confrontata con una delle più grandi crisi migratorie e umanitarie degli ultimi decenni, seguita allo scoppio dei conflitti in Libia alla fine di febbraio del 2011.

Il conflitto ha provocato l’esodo di centinaia di migliaia di lavoratori migranti allora residenti in Libia, di cui più della metà hanno attraversato la frontiera tunisina, in tre ondate migratorie durante i primi sei mesi del 2011, che ha coinvolto persone provenienti da paesi terzi e principalmente lavoratori, 48.500 tunisini e 208.000 libici (dati OIM, ottobre 2011).

Nonostante la maggioranza dei lavoratori provenienti dall’Africa Sub-Sahariana sia stata rimpatriata verso i paesi di origine, circa 3.000-4.000 rifugiati e richiedenti asilo sono rimasti alla frontiera tra Libia e Tunisia nel campo di Choucha, allestito il 26 febbraio 2011 dall’UNHCR e altre organizzazioni internazionali e tunisine a nove chilometri dal posto di frontiera di Ras Jedir, in pieno deserto.

In particolare si trattava di cittadini somali, eritrei, ivoriani, nigeriani, ghanesi, palestinesi e di altre nazionalità, che si erano rifiutati di rientrare nei loro Paesi di origine. L’esperienza del campo di Choucha è prova tangibile dell’inadeguatezza delle strutture normative e organizzative della gestione dell’accoglienza e della protezione di migranti e richiedenti asilo in Tunisia.

Il meccanismo della richiesta di protezione e asilo si attiva quasi immediatamente, con l’obiettivo di indicizzare i presenti tra migranti e richiedenti asilo. A circa 3.0000 viene riconosciuto lo status di rifugiato e una parte viene reinstallata in paesi terzi, tra cui Stati Uniti, Norvegia, Svezia e Germania nel quadro dell’Iniziativa Globale di Solidarietà per la Reinstallazione lanciata da maggio a dicembre 2011 dall’UNHCR.

Gli altri non vengono, invece, riconosciuti in base al principio del Paese di provenienza e rimangono in territorio tunisino: 116 rifugiati e 360 richiedenti asilo, per la maggior parte provenienti dalla Costa D’Avorio si installano a Tunisi e circa 600 richiedenti asilo e rifugiati, principalmente sudanesi, somali e eritrei si installano nelle città di Ben Guardane, Medenine e Zarziz, nel sud della Tunisia.

Sono circa 230 le persone che, “diniegate” dal sistema di protezione dell’UNHCR, diventano quindi migranti economici, ovvero migranti illegali sul territorio tunisino, bloccati pertanto nel campo di Choucha. Profughi della guerra in Libia, bloccati in territorio tunisino in situazione di illegalità e vulnerabili di fronte alle autorità tunisine, sono spesso incoraggiati dalla stessa OIM a tornare nel loro Paese d’origine, secondo il principio del “ritorno volontario”.

Altri 150 si trovano invece nella paradossale situazione di essere rifugiati sulla carta e scartati nei fatti: ufficialmente sono stati riconosciuti “rifugiati” ma sono stati esclusi dal meccanismo che prevede il reinsediamento in un paese terzo (resettlement). Il che significa, anche per loro, assenza di ogni protezione e diritto, estrema vulnerabilità e rischio di essere arrestati, considerato che ad oggi la Tunisia non ha una politica di asilo.

È il 30 giugno del 2013 quando il campo di Choucha viene chiuso ufficialmente dall’UNHCR e quindi cessa la fornitura di servizi (distribuzione dei pasti, accesso all’acqua e alle cure mediche) a coloro che ancora vi risiedono, in una zona di frontiera delicata in cui la tentazione del traffico illegale è forte e la minaccia all’incolumità personale è in aumento.

Ad abitarla da quel momento saranno solo i “diniegati”, impegnati in un’azione di resistenza per rivendicare un impegno da parte dell’UNHCR e dell’Unione Europea, per risolvere le loro situazioni che dimostrano la contraddizione tra l’impianto normativo e le dinamiche reali della mobilità.

Nessun accordo tra UNHCR e il governo tunisino ha definito una co-responsabilità per la presa a carico di queste persone, ormai invisibilizzate dalle politiche e dai media anche in Tunisia e in una situazione di impasse giuridica, con scarse opportunità di uscirne se non attraverso la fuga via mare, che negli ultimi mesi ha già risucchiato molti di loro, riducendo ulteriormente il numero dei rimasti.

Un’ulteriore dimostrazione dell’assurdità dell’esternalizzazione delle frontiere e delle procedure di asilo in Paesi come la Tunisia, laboratorio privilegiato per le conquiste democratiche. Ecco in tutta la sua evidenza come nascono i “clandestini” e gli “irregolari” a partire dai profughi di guerra e come si stimolano le reti dei “passeurs”, i trafficanti di esseri umani.

Nonostante la Tunisia abbia firmato la Convenzione di Ginevra e i Protocolli relativi del 1967 e abbia, altresì, inserito una serie di protezioni specifiche che garantiscono il diritto d’asilo politico nella nuova Costituzione del 2014, finora nessuna normativa specifica ha offerto un quadro rispetto al sistema dell’asilo e alla protezione dei migranti. La legge sull’asilo resta tuttora bloccata, fanalino di coda delle priorità politiche del governo e il parlamento non ha ancora avviato un dibattito serio sulla proposta.

Questo vacuum ha rappresentato una delle criticità sottolineata dai movimenti della società civile tunisina e europea al momento della firma della Partnership per la Mobilità del 2014, poiché un tale accordo avrebbe potuto condurre all’aumento nel numero delle detenzioni tra i migranti, quando l’Unione Europea ha avviato le procedure di rimpatrio di tunisini e cittadini di Paesi terzi transitati in Tunisia prima di arrivare in Europa.

Sin dal 1998 l’Italia e la Tunisia avevano siglato un accordo sulla riammissione di tunisini e cittadini di Paesi terzi che prevedeva un finanziamento sostanzioso da parte del governo italiano per la creazione di centri di detenzione sul territorio tunisino.

Secondo alcuni rapporti, il proliferare di centri di detenzione per migranti sia prima che dopo la rivoluzione in Tunisia farebbe oggi ammontare il numero di questi ultimi almeno a tredici in tutto il Paese. Le autorità tunisine non hanno però mai confermato questi dati fino ad oggi e nessun documento ufficiale ne dà un quadro esauriente, mantenendo la gestione dell’immigrazione nel Paese in un vaso di Pandora.

Tra i vari centri, il più noto e documentato è quello di “ricezione e orientazione per migranti” di Al Wardia, situato in un quartiere della capitale, oltre a quello riaperto recentemente a Ben Guardene, a pochi chilometri dalla frontiera libica e adiacente al campo di Choucha.

L’ordinamento tunisino non prevede norme specifiche per la detenzione amministrativa di migranti, nonostante questa procedura sia largamente praticata. Pertanto le carcerazioni sono spesso arbitrarie e spesso ad esserne vittime sono i migranti rimasti sul territorio in situazione irregolare. Situazione che potrebbe largamente aggravarsi con l’implementazione della nuova legge antiterrorismo e con le pratiche liberticide su cui la Tunisia ha un vissuto importante.

Negli ultimi mesi, svariati casi di richiedenti asilo o rifugiati statutari sono stati rilevati nei centri di detenzione per migranti di Al Wardia, in una situazione di detenzione preventiva per periodi estensivi, a volte mesi.

Dal Rapporto speciale delle Nazioni Unite sui Diritti Umani dei Migranti del 2013 si evince che nel centro vengono detenuti migranti di diverse nazionalità, in una situazione di totale assenza di diritti, privati di assistenza legale o di contatti con le proprie rappresentazioni consolari e in stato di arresto senza che le procedure di detenzione siano chiare. Oltre alle condizioni igieniche e materiali spesso insufficienti e al sovraffollamento delle celle oltre i limiti della capienza ordinaria fissata a cento persone, è proprio la totale assenza di trasparenza su ciò che accade in questi centri che desta preoccupazione.

Nonostante dopo il 2011 il governo tunisino della Troika avesse interrotto l’interdizione ventennale nell’accesso ai suddetti centri per organizzazioni dei diritti umani, le autorizzazioni all’accesso rimangono tuttora estremamente difficili da ottenere anche per entità come Human Rights Watch, l’unica organizzazione che dopo la rivoluzione ha potuto accedere alle carceri, o per gli avvocati legati alla Lega Tunisina dei Diritti Umani.

Rispetto ai centri per migranti, l’unica eccezione è rappresentata dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, autorizzata ad effettuare visite confidenziali ai detenuti di religione cristiana. Questo spiega l’assenza di informazioni o dati condotti da organizzazioni indipendenti.

Nonostante non ci siano menzioni specifiche nella legge tunisina sulla detenzione amministrativa di migranti, i periodi di detenzione nei centri sarebbero arbitrari e i non tunisini in situazioni irregolare possono essere tenuti in custodia per durate diverse dipendendo dalla loro situazione particolare.

In base alle ricerche e interviste condotte da alcune ricercatrici italiane (Glenda Garelli, Federica Sossi, Martina Tazzioli) dal mese di novembre 2014, le possibilità di uscita sono invece limitate a due, entrambe illegali e illegittime in uno Stato di diritto. La prima possibilità è legata al fatto che i migranti stessi acquistino autonomamente in biglietto per rientrare nel proprio Paese di origine per il loro rimpatrio, spesso in Paesi in cui la loro incolumità è a rischio. In questo caso spesso la procedura, già illegittima di per sé, si complica perché ai migranti che hanno transitato sul territorio tunisino oltre i tre mesi (in generale il periodo di residenza permessa dal visto) si chiede di pagare una cifra corrispondente a 100 dinari per ogni mese supplementare.

La seconda prevede la deportazione in Algeria, minaccia diretta ai migranti dai poliziotti responsabili del centro, alla frontiera terrestre con la Tunisia corrispondente al governatorato di Kasserine, da cui spesso incorrono nella morte nel deserto algerino.

Secondo la legge organica 68-7, è il ministro degli Interni ad essere responsabile di designare le autorità che daranno gli ordini di espulsione, mentre è la polizia ad avere il compito di effettuare le espulsioni. Quel che non è chiaro tuttora è su quale base queste deportazioni vengano effettuate e se esistono accordi bilaterali specifici tra Tunisia e Algeria.

Ad aggravare il quadro, citiamo che il centro di Al Wardia ospita anche rifugiati siriani o rifugiati statutari ma riconosciuti tali in altri paesi dall’UNHCR, non essendo automatico il riconoscimento dell’equipollenza dello status internazionale da un paese all’altro. Anche donne e minori, inclusi minori non accompagnati, sono presenti e vengono invece rinchiusi in un centro adiacente.

In questo articolo sono riportate alcune interviste-testimonianza di migranti detenuti nel centro di Al Wardia o rimpatriati nel loro paese di origine. Molte di queste persone provengono dal campo di Choucha e sono quelle che sono rimaste bloccate in territorio tunisino in una situazione di illegalità.

Tra le raccomandazioni dello Special Rapporteur sui Diritti umani dei migranti alle autorità tunisine nel 2013, si specifica che la detenzione dei migranti deve essere sempre giustificata, periodicamente rivista da un tribunale indipendente e limitata per un periodo minimo necessario; famiglie e bambini non dovrebbero incorrere nell’arresto; i centri di detenzione dovrebbero essere accessibili per meccanismi di monitoraggio civili appropriatamente finanziati, deve essere garantito che tutti i migranti privati della loro libertà possano contattare le famiglie, ed avere accesso ad un avvocato. Le stesse incitano anche a de-criminalizzare il passaggio irregolare delle frontiere e a accelerare la procedura nazionale di riconoscimento dello status di rifugiato conforme alle norme internazionali.

Il governo tunisino non risponde e nel frattempo la Tunisia sta ormai fedelmente adattando la propria politica migratoria agli obiettivi europei, seguendo una scala di priorità dove il focus sulla sicurezza della frontiera predominano.

Le interrogazioni e gli appelli delle organizzazioni non governative, tra cui Amnesty International, Human Rights Watch, Federazione Internazionale dei Diritti Umani, Migreurope, sono ancora inefficienti e scarsamente supportate dalla società civile tunisina assorbita dall’agenda delle priorità politiche e troppo frammentata per aver un reale peso di incidenza.

La maggior parte dei media, nel frattempo, ignorano, come hanno ignorato all’indomani del 19 aprile la tragedia del Mediterraneo, la situazione esplosiva di questi luoghi di non diritto, i rischi evidenti della tratta di esseri umani alle frontiere terrestri, di cui soprattutto quella libica rappresenta una bomba a orologeria.

 

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