Le parole degli altri. Vocabolario di un conflitto

Riflessioni sull’importanza delle parole in una terra contesa come la Palestina

di Costanza Pasquali Lasagni

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

Raja Shehadeh, classe 1951, ha un viso tondo e simpaticissimo. Piccolo di statura, fisico minuto, i suoi occhi acuti, la sua mente brillante e la sua dialettica coinvolgente spuntano con sicurezza da dietro il tavolo allestito per la presentazione del suo ultimo libro, Language or War, Language of Peace, nel bellissimo chiostro di San Giorgio, a Gerusalemme Est. Capisci già che è uno che non le manda a dire.

Le parole sono importanti, e mai come in questa terra contesa lo sono veramente. Partendo dall’inizio della fine, ovvero dalla Naqba, la catastrofe, e continuando fino ai giorni più recenti, Raja ci porta con sé in un viaggio temporale, a scoprire insieme come in quasi settant’anni non sia solo la geografia ad essere cambiata, purtroppo irreversibilmente, ma come lo stesso linguaggio, lo stesso vocabolario si sia trasformato nel tempo. E le parole, a volte sterili e asciutte, con cui ci muoviamo nel conflitto oggi hanno perso molto del senso di umanità e significato emotivo che avevano allora.

O meglio, nuove parole si sono sostituite a quelle originarie, sovrapponendo così un ennesimo, nuovo, livello, alla già intricata e complessa realtà.

Cominciamo con il DCO, District Coordination Office, cioè l’ufficio territoriale per il coordinamento dei territori palestinesi, il comando militare israeliano presente in ogni distretto palestinese. A Beit Jala la rotonda del DCO è il riferimento stradale se si vuole andare in quel paradiso di posto che è Hosh al Yasmin, il cortile dei gelsomini, a vedere il sole che tramonta sulle colline di olivi.

Ma il DCO più famoso è senza dubbio quello che da il nome al secondo checkpoint di Ramallah, a nord est della città. Il DCO è il checkpoint che prendiamo tutti, specialmente noi “stranieri”, per evitare il traffico – e a volte anche le tensioni – di Qalandya, anche se si allunga la strada di almeno mezz’ora, poiché si circumnaviga tutta la città dalla route 60 fino a Jaba Junction. È un trade off tra tempo e traffico, la scelta della strada, e di conseguenza dei posti di blocco da passare. «Da che checkpoint arrivi?», è la prima domanda che ti viene rivolta quando chiedi informazioni su come trovare un indirizzo. Raja ci ricorda che lì esistevano villaggi palestinesi, ora sostituiti o circondati da insediamenti e uffici militari.

Raja Shehadeh (foto: PalFest via Flickr - CC)

Raja Shehadeh (foto: PalFest via Flickr – CC)

Il DCO è solo uno dei tanti casi in cui il linguaggio dell’occupazione, ma anche del mondo umanitario, e della vita quotidiana, si è sostituito nel tempo al linguaggio originario, portando con sé una nuova narrativa. Quella purtroppo secondo la quale ci si ricorda solo del DCO per nominare quella zona di Ramallah, dei “profughi” come termine giuridico, prima ancora di ricordarci che stiamo parlando di persone, dei “permessi”, dando per scontato che debbano esistere per fare qualsiasi cosa. Costruire, muoversi, curarsi, ottenere un documento.

Si impara in fretta la lingua del conflitto qui. Ormai la nostra testa va in automatico, la sigla CP significa checkpoint, dividi mentalmente le persone tra rifugiati del ’48, del ’67, tra IDPs, cioè gli sfollati interni, e altre categorie – a seconda del tuo mandato. Sai distinguere tra una bypass road ed una strada interna palestinese, tra un checkpoint per coloni, uno per diplomatici e quelli solo per i palestinesi. Tra una seam zone e una firing zone, tra aree A, B e C. Ma non è sempre la stessa terra?

Il collegamento è ovviamente immediato: e noi, noi che sventoliamo le nostre bandiere celesti, rosse, bianche, che siamo qui per cercare di rendere questo posto un po’ più umano per tutti, di sicuro per chi sta peggio, quanto, invece, usando lo stesso linguaggio, lo rafforziamo, lo legittimiamo, e lo consolidiamo? Qual è il nostro ruolo, di sicuro non neutrale, in questa grande narrativa? È il grande dilemma di chi si trova in questa terra.

Ignorare la realtà, o chiamarla col suo nome, quale delle due fa meno danni? Quale delle due è l’assurdità e quale la realtà?

Lo ammetto, sono imbarazzata per non sapere il nome del villaggio dietro il DCO, nonostante siano due anni e mezzo che ci passo almeno tre volte a settimana. Le parole sono importanti, perché possono essere armi o ponti. Sono armi quando sono seam zones, permessi, checkpoint (machsom, in ebraico, usata anche dai palestinesi). Sono ponti quando parole di linguaggio comune dell’una e dell’altra lingua sono entrate ormai a far parte del quotidiano, come se fosse, e in effetti sarebbe, la cosa più normale del mondo. Kul shi beseder, va tutto bene, e sarebbe fantastico.

Raja, fine giurista, fondatore della storica ong Al Haq, “il diritto”, da sempre dichiara che la sua unica arma – bianca – è quella della legge. Del diritto, nazionale, internazionale ed umanitario. Arma che da decenni impugna e mette a disposizione dei leader nazionali come strumento pacifico e potente di contrapposizione, ragionata prima di tutto, dell’occupazione. Non nasconde, Raja, la sua amarezza e la sua stanchezza nei confronti di una classe politica interna che non è mai stata capace di stare al passo con la controparte israeliana e che quindi è, secondo l’autore, corresponsabile della disperata situazione in cui si trova la Palestina adesso.

Raja Shehadeh (foto: PalFest via Flickr - CC)

Raja Shehadeh (foto: PalFest via Flickr – CC)

È duro Raja, porta la storia della Palestina sulle sue spalle, la sua famiglia è stata sfollata da Giaffa nel 1948, il padre non ha accettato che la sua diventasse una famiglia “rifugiata”. Non risparmia coltellate affilate, mai polemiche, poiché sa di cosa sta parlando. Lo ha provato sulla sua pelle, lo osserva nelle vite dei vicini, nelle vite di tutti. È impossibile non vederlo.

Non nasconde la sua stanchezza e la sua amarezza, perché dopo i fallimenti dei negoziati di pace nel 2013 e l’atroce 2014, anno di sangue e violenza per Gerusalemme, West Bank e soprattutto Gaza, ammette che le armi, almeno quelle pacifiche – le altre per noi non esistono nemmeno – sono esaurite. Come esaurita è la speranza che qualcosa possa cambiare.

«Ancora una volta nel 2014 il linguaggio della guerra ha spazzato via il linguaggio della pace», dice Raja. Ancora una volta le armi hanno vinto sui ponti.

«Cosa ci è rimasto?», ci chiediamo tutti alla fine di due ore passate insieme, cuori stretti e stomaci chiusi, che non abbiamo quasi coraggio di uscire dal chiostro per non tornare nella crudele realtà di Gerusalemme e del suo linguaggio. Est, ovest, e così via. «Ci è rimasta una grande, potentissima arma», rompe il silenzio Raja, sereno e deciso. Il capitale umano. Le persone, al di qua e di là del muro, di qua e di là del confine. Quel grande immenso potere collettivo che è l’umanità. Raggiungere l’opinione pubblica tutta, mobilitarla, dare voce a tutti le storie individuali, come dice Suad Amiry, altra acuta ed ironica mente palestinese, che non si perdano in una storia sterile scritta con parole sterili.

Per questo bisogna tornare a parlare, sperare e sognare. «E chi, meglio di poeti e bambini», domanda alla fine Raja al lettore, «è capace di immaginare un futuro migliore?» E di poeti, ma soprattutto di bambini, di ragazzi, è piena la Palestina.

E se davvero siamo il prodotto del nostro ambiente, più che del nostro destino, allora che prodotto saranno generazioni di bambini e ragazzi nati e cresciuti, solo negli ultimi venti anni, tra muri, soldati, raid aerei e carri armati? In Palestina, chi ha la mia età ha vissuto due intifade. Chi ha sei anni è sopravvissuto a tre guerre a Gaza. Circa due milioni di giovani, ragazzi e bambini scriveranno il nuovo futuro della Palestina in questi e nei prossimi anni. Quale linguaggio vorremmo che usassero?

 

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