Expo: sette lunghi imbarazzanti anni

Sono quelli trascorsi dal 31 marzo 2008 quando Milano si aggiudicò l’Expo del 2015 contro la città turca Smirne: 86 voti a 65, costati in promozione e viaggi in giro per il mondo 9 milioni di euro

di Roberto Maggioni, foto di Marta Maioli
Articolo uscito sull’edizione di stamattina de Il Manifesto

La foto ricordo di quel giorno ritrae sorridenti i protagonisti politici di quell’impresa:  il sindaco di Milano Letizia Moratti, Roberto Formigoni presidente della regione Lombardia, Romano Prodi presidente del consiglio e Massimo D’Alema ministro degli esteri. Sullo sfondo il presidente della Provincia di Milano Filippo Penati. Gli ultimi giorni di gloria: di loro non ne è rimasto neanche uno. Expo è un po’ così, fa cadere in disgrazia chiunque gli si avvicini. E non è rimasto quasi nulla anche di quel dossier di candidatura con cui Milano si è aggiudicata l’Esposizione Universale.

Era il libro dei “sogni” dove si promettevano canali navigabili e Vie di Terra da percorrere in bici e a cavallo, metropolitane che avrebbero ridisegnato la mobilità cittadina, faraoniche autostrade vecchie di trent’anni che con il tocco di Expo si sarebbero riscoperte giovani e con una ragione di esistere (tra queste la Bre.Be.Mi., l’autostrada da poco inaugurata e meno utilizzata della storia).

E poi il tema: “nutrire il pianeta, energia per la vita”. Quanto di più nobile e vago allo stesso tempo, ma sufficiente a scaldare cuori e teste di addetti ai lavori e ambasciatori di ogni ordine e grado. Nutrire il pianeta per nutrire le persone che lo abitano, ragionare attorno ai temi della sostenibilità, mostrare quanto di meglio i Paesi del mondo hanno da dire e fare per lasciare in eredità un pianeta meno malato di quanto sia ora. Dentro all’Esposizione tutto ciò si sarebbe dovuto declinare con orti, colture e cervelli attorno a un campo e zappa alla mano, se non per dare soluzioni, quantomeno per indicare strade percorribili e lasciare in eredità un orto globale a futura memoria.

Un libro di e dei sogni, appunto, con cui Milano convinse i paesi del BIE, l’ufficio privato con sede a Parigi che dal 1928 organizza le Esposizioni Universali e Internazionali, che l’Italia era all’altezza della sfida.

Ma Expo è fin dalle origini, Londra 1851, un’altra cosa: una fiera del capitalismo a disposizione dei capitalisti, cambiate un po’ le definizioni di capitalismo e capitalisti oggi, se volete, ma il risultato non cambia.

Un format chiuso, con regole precise, oggi fortemente anti-storiche. Expo Milano non ha saputo rinnovare questo format, ancorandosi ai modelli delle esposizione novecentesche: pesanti, costose, staccate dalla vita delle città che le ospitano. E aggiungendo qualche virtù nostrana, è diventata un baraccone mangiasoldi sgangherato ma dannoso.
Passano i mesi e gli anni, quelli tra il 2008 e il 2011 possiamo definirli della spartizione dei poteri e della costruzione dell’emergenza, quelli governati dalla destra berlusconiana-formigoniana-morattina, dove non si è mosso un metro cubo di terra ma sono state posate le fondamenta per costruire il Sistema Expo, fatto di deroghe, commissari e poteri speciali. Un evento nato su una speculazione edilizia, con l’anomala e costosa acquisizione dei terreni su cui costruire l’Esposizione: 142 milioni di euro per terreni agricoli, di proprietà di privati, gruppo Cabassi e Fondazione Fiera, quest’ultima allo stesso tempo venditore (più della metà dei terreni sono suoi) e compratore (Fondazione Fiera entra con Comune di Milano e Regione anche nella società Arexpo che comprerà i terreni). Fiera Milano e la sua fondazione erano e sono un feudo di CL, Formigoni e Lupi, e in quegli anni aveva qualche problema di bilancio: 22 milioni di buco solo nel 2006, ripianato grazie all’operazione Expo/terreni.

Le Esposizioni, dice il BIE, vanno fatte su terreni pubblici proprio per evitare speculazioni ed un esborso di soldi iniziale (visto che poi il pubblico paga tutto il resto) da parte degli enti pubblici. A Milano Moratti e Formigoni decidono di fare diversamente, inaugurando l’Expo dell’amicizia, quel modo di gestire la cosa pubblica come fosse affare privato. E’ quell’uso disinvolto delle regole che porterà Expo a derogare a 82 norme del codice degli appalti pubblici, ad affidare senza gara appalti per oltre 500 milioni di euro, a declassare terreni inquinati per alleggerire le bonifiche.

EXPO 2015.Posa della prima pietra al cantiere  di Rho Fiera

C’è una sorta di corruzione ideologica, sociale e culturale che Expo infonde ovunque arriva. Così diventa normale affidare ristoranti e padiglioni senza gara ad esempio a Eataly o Identità Golose perché sono “eccellenze italiane”, diventa normale accentrare sotto il marchio Expo eventi di ogni tipo in giro per l’Italia perché “tutti vogliono un po’ di visibilità Expo”, diventa normale mettere sullo stesso campo, in senso letterale, cose incompatibili, come agricoltura di prossimità o biologica e ad OGM, filiera corta e multinazionali del cibo spazzatura, Stati dittatoriali e associazioni che ne denunciano la ferocia. Expo ha reso conciliabili gli inconciliabili. Cosa resterà di questa conciliazione?
Il baraccone, dopo gli anni della spartizione 2008-2011, ha iniziato a muoversi più o meno con la vittoria alle elezioni milanesi di maggio 2011 di Giuliano Pisapia. L’immobilismo sui lavori dei primi tre anni segnerà pesantemente la costruzione dell’Esposizione, anche se va detto che lentezza e disorganizzazione sono rimaste alla guida del timone fino ad oggi. Così il libro dei sogni del 2008 si è trasformato in un incubo da tagliare e modificare: gli orti globali sono spariti per fare posto al cemento della piastra e dei padiglioni, le Vie d’Acqua sono diventate Via d’Acqua al singolare, opera brutta, costosa e insensata, madre di tutte le tangenti Expo e bloccata dai comitati No Canal e No Expo prima dell’arrivo della magistratura. Le Vie di Terra sono sparite, le metropolitane sono passate da tre a una (la M5 lilla), il villaggio Expo non ci sarà, le autostrade hanno continuato a drenare soldi pubblici mangiandosi oltre millesettecento ettari di terreni agricoli. Ci sarà la Darsena di Milano restaurata.

Tagli, progetti cambiati in corsa,  il 2012 è servito a raccontare che Expo sarebbe stato un evento mafia free e costruito nel rispetto della legalità. Vengono firmati protocolli di legalità poi depotenziati nei due anni seguenti per non correre il rischio di rallentare i lavori con troppi controlli o estromissioni di aziende vincitrici dei lavori più importanti. Vengono eliminate le informative cosiddette atipiche, viene innalzata la soglia oltre cui far scattare i controlli antimafia da 50 a 100 mila euro, per i paesi stranieri che si costruiscono il padiglione da soli non c’è l’obbligo di firmare il protocollo di legalità. Il risultato è che solo 6 paesi su 60 lo firmeranno, un flop. E un bel problema per l’antimafia che ha uno strumento in meno per intervenire direttamente sulle aziende in odore di mafia. Tra cantiere Expo e opere collegate sono 77, ad oggi, le interdittive antimafia firmate dalla Prefettura. Nel frattempo dentro la società Expo cresceva e si nutriva la “cupola degli appalti”, così definita dalla Procura milanese.

Siamo nei primi mesi del 2014, l’anno delle tre grosse inchieste che hanno portato in carcere gli uomini più vicini al commissario di Expo Giuseppe Sala, e poi imprenditori e faccendieri di destra e di sinistra.

Solo il comune di Milano e la giunta Pisapia sono rimasti fuori da inchieste e arresti. Da luglio 2014 a vigilare sui bandi Expo è poi arrivato, nominato da Renzi, il presidente dell’autorità anticorruzione Raffaele Cantone, che una volta chiusa la stalla dopo che la maggior parte dei buoi erano scappati, ha disinnescato i futuri scandali giudiziari, a partire da uno dei simboli di Expo, l’Albero della Vita che Cantone ha chiesto di rimettere a bando da zero.

Nulla da fare invece per palazzo Italia, l’edificio che rappresenterà il nostro paese e il cui appalto, secondo la procura di Firenze, è stato truccato dalla cricca Lupi-Acerbo-Perotti.
“In ballo c’è l’idea stessa dell’Italia” ha detto Matteo Renzi a marzo 2015. Forse per chi ha tirato su il sito espositivo 20 ore di lavoro al giorno o per i progettisti e gli architetti costretti ad aggiustare e rivedere i progetti per stare dietro ai tagli di Expo, sì.

Ed è l’idea dell’Italia di chi ha fatto il suo lavoro fino in fondo.
Per il resto, fino ad oggi, quella di Expo è stata una imbarazzante e dannosa farsa.

 

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