Giovanni Lai si racconta – 02

Cosa succede se a settant’anni un uomo decide di partecipare a un laboratorio di narrazione e inizia a raccontare la propria vita in Sardegna? Ne escono storie bellissime e aspre, che Q Code ha deciso di raccogliere, organizzare e offrire ai propri lettori

di Giulia Bondi,
foto tratta da Sardegna abbandonata

[Leggi qui la prima puntata]

Giovanni Lai, di origine sarda, ha vissuto mezza vita in Emilia, a Fiorano Modenese. Lo scorso anno, a settant’anni, ha partecipato a un laboratorio collettivo di narrazione insieme a una decina di persone, di diverse età e provenienze. Nel laboratorio ha presentato una serie di racconti: alcuni scritti ad hoc, la maggior parte tratti da una personale e apparentemente inesauribile “raccolta di memorie” alla quale si sta dedicando da alcuni anni.

I racconti di Giovanni Lai trasportano il lettore in una Sardegna in gran parte perduta, non diversa, nella sua cultura e semplicità tradizionale, dai mondi contadino altrettanto perduti dell’Italia “continentale”.

I due racconti di oggi si riferiscono a momenti molto diversi. Il primo, alla Sardegna degli anni Cinquanta, a un’infanzia giocosa e intrepida, alla magia di un luogo, le Grotte di San Michele di Ozieri, che allora non era ancora valorizzato come sito archeologico e si offriva all’esplorazione dei ragazzi. Nel corso del laboratorio di scrittura, un altro partecipante, Aurelio Pittalis, sempre di origine sarda, ha descritto lo stesso luogo, visto con i suoi occhi di bambino, qualche anno più tardi.

I ragazzi entravano nella grotta facendosi luce con torce fatte di stracci, e battezzavano con nomi fantasiosi i punti più difficili o spettacolari dell’avventura.

«Nacquero così – scrive Pittalis – ‘su muru eladu’ (la parete di ghiaccio), cosiddetto perché viscido e freddo, che percorrevamo addossati ad esso; ‘sa mincia e’ su trau’ (il pene del toro) che serviva, aggrappandosi ad esso, a scavalcare un punto abbastanza difficoltoso; ‘sa zighizaga’ (la curva ad S) perché si andava prima a destra e poi subito a sinistra. (…) Arrivammo infine a quello che definimmo ‘su camerone ‘e-su Re’ (la sala del trono). Lo chiamammo così per la forma squadrata, con ai lati panche scolpite nella roccia calcarea e al centro, addossato alla parete, uno scranno singolo più definito, che considerammo ‘su tronu’ (il trono)».

Il secondo dei racconti di Giovanni Lai che pubblichiamo oggi è invece un breve, fulmineo, divertissment: un’istantanea di vita di coppia nata da un esercizio del laboratorio, che chiedeva di scrivere racconti a partire dalla parola “porta”.

Il gigante

Un mio amico mi diceva, durante le nostre solite conversazioni, che loro possedevano una grossa “tanca”, (un appezzamento di terreno chiuso con muro a secco) avuto attraverso i suoi lontani avi e vi andava con suo padre. In questo terreno vi era una grotta che serviva come ricovero per il bestiame e anche per loro stessi quando pioveva, mentre stavano lì in attesa che smettesse di piovere. Il padre gli raccontava che un giorno, stanco di camminare, in questa grotta si fermò a riposare un gigante che rientrava dal lavoro dopo avere partecipato con altri giganti alla costruzione di un grosso Nuraghe.

I Nuraghi sono delle costruzioni a forma di torre fatti con grossi sassi a secco, cioè senza cemento, e si dice che li abbiano fatti dei giganti.

Pensando a quella storia, il mio amico un giorno decise di andare nella grotta da solo per guardarla meglio e sperava di trovare qualche traccia del gigante. La grotta aveva un’entrata non molto grande, ci poteva passare un bue di dimensioni normali. Poi, oltre il passaggio si allargava e vi era una grande stanza. Nella parete destra, all’altezza di due metri da terra, c’era una nicchia dove ci si poteva stare sdraiati. Si arrampicò e si sdraiò guardando la volta della grotta fatta di bellissime stalattiti bianche come la neve e pensò che magari il gigante si era riposato proprio lì, dove lui era sdraiato. E con la fantasia che tutti i ragazzi curiosi hanno, gli sembrò che la grotta si animasse: vedeva una donna vicino al fuoco che cuoceva un pezzo di carne ancora sanguinante infilzata in un uno spiedo di legno e due ragazzi le stavano vicino con gli occhi sbarrati, aspettando il momento di mangiarla; un uomo stava seduto per terra e costruiva le frecce che avrebbe usato quando sarebbe andato a caccia; un cane dal pelo folto e scuro era accucciato ai suoi piedi sonnecchiando. Trascorse un po’ di tempo a fantasticare, poi decise di rientrare a casa.

Scese dalla nicchia. Appena toccò terra un piede urtò contro qualcosa di duro. Si chinò e vide un cerchio che affiorava dalla terra. Con le mani iniziò a scavare e man mano che scavava l’oggetto prendeva forma.

Era un vaso antico. Subito pensò che il gigante l’avesse dimenticato lì. Cercò di tirarlo fuori con forza dalla terra che ancora lo avvolgeva, ma il vaso si ruppe in parecchi pezzi. Nessuno mai gli aveva parlato che vasi come quello potevano avere molto valore. Lo capì quando diventò grande. Comunque capì che anche se era a pezzi valeva qualcosa e lo vendette ai ragazzi che frequentavano le scuole medie. Non seppe che fine fece, però lui ci fece un po’ di soldi e andò a comprarsi delle castagne secche che a lui piacevano molto. Dentro di lui pensò che gli antenati avrebbero capito.

In spalla

Un giorno litigai con mia moglie. Io volevo andare al bar a bere qualcosa con gli amici e passare qualche ora in loro compagnia. Lei non era d’accordo. Mi disse che se uscivo dalla porta, quando sarei rientrato l’avrei trovata chiusa. E mi avrebbe fatto passare la notte fuori di casa!

Io la guardai con stupore e siccome non gliela volevo dare vinta, andai verso la porta, che era a due ante, ne sfilai una, me la misi in spalla e le dissi: “Adesso voglio vedere come farai a chiuderla!” e me ne andai al bar con mezza porta in spalla.

 

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