Xinjiang: il difficile melting-pot 3/3

Terzo pezzo dedicato alla regione della Cina: il tentativo di integrazione etnica che sembra volere il governo cinese si infrange sulla repressione e sulla mancanza di eguaglianza nella ridistribuzione della ricchezza, presente e futura


di Gabriele Battaglia,
tratto da China Files

La prima puntata
La seconda puntata

UNA GRANDE FAMIGLIA

Il presidente Xi è sempre molto attento alle parole. Quando parla di minzu, cioè delle nazionalità che compongono la Cina, vi associa sempre la metafora della “grande famiglia”, a differenza non solo della “narrativa della crisi” occidentale, ma anche di parecchi osservatori cinesi che parlano di “palestinizzazione” o “talebanizzazione” dello Xinjiang. Secondo le sue stesse parole, jiaowang jiaoliu jiaorong dovrebbe “legare i gruppi etnici della Cina più strettamente dei semi di una melagrana”.

Una grande famiglia, appunto. E così, lo scorso settembre, nella contea di Qiemo (o Qargan), in una prefettura dello Xinjiang a maggioranza mongola, è partito un progetto pilota per favorire le coppie miste: eventuali sposini che hanno registrato il proprio matrimonio dopo il 21 agosto, possono chiedere una sovvenzione annua di 10mila yuan (oltre 1200 euro). Non è male, dato che il reddito medio di quell’area rurale è di 7.400 yuan.

Sempre a settembre, è giunta notizia che vicino a Hotan, in quella parte dello Xinjiang meridionale dove la componente uigura è più numerosa e lo sviluppo economico ancora deficitario, è partita la sperimentazione di un “Kibbutz” secondo caratteristiche cinesi. Progettato su circa 450 ettari, dovrebbe essere composto da 600 appartamenti residenziali e altrettante serre: alle famiglie che sceglieranno di trasferirsi nella neonata Arcadia, sarà assegnata una casa a corte, una serra e un frutteto di 0,33 ettari. Ai tempi, Xinhua ha riportato che si stavano esaminando le domande di migliaia di famiglie, ma quello a cui punta il progetto è un’integrazione bilanciata fra le diverse etnie.

Sono tutte sperimentazioni circoscritte. Se poi si rivelano efficaci, vengono esportate. Così funziona la Cina. Si tenta in tal modo una politica inclusiva che possa dare ottimi risultati sul medio-lungo periodo.

Tuttavia, nell’immediato, il ribaltamento della segregazione nel segno della vicinanza rende più a portata di mano e meno gestibili le violenze. Non è un fenomeno solo cinese: basti ricordare l’esempio delle bombe nella metropolitana di Londra del 7 luglio 2005, che per molti conservatori avrebbero dovuto sancire la fine del melting-pot. Ed ecco la giustificazione della repressione: bisogna fare piazza pulita in fretta, per poi veder trionfare jiaowang jiaoliu jiaorong.

LA GOVERNANCE DELLA DIVERSITÀ
Nel suo “grande sogno cinese” top-down, la leadership di Pechino vuole dare vita a una moltitudine urbana, un ceto medio diffuso, che si sostituisca alla massa operaia-contadina. Allo stesso modo, nello specifico dello Xinjiang (e del Tibet), vorrebbe creare una neoetnia: non più han e uiguri, ma semplicemente xinjiangren. Orgogliosamente cinesi.

La prima operazione di ingegneria sociale passa attraverso la nuova urbanizzazione cinese e intende portare la Cina al punto più alto dello sviluppo capitalistico. La seconda contiene invece un segno antico, come la costruzione degli italiani nell’unificazione nazionale. E le parole, straordinariamente, sembrano coincidere: “Risorgimento” per i nostri avi; Zhonghua minzu de weida fuxing per la Cina, cioè “il grande ringiovanimento della nazione cinese”.

In questo caso, la costruzione nazionale si innesta però già sul postfordismo. Per cui, non servono guerre mondiali combattute come alla catena di montaggio, la fabbrica che prende le sembianze della trincea, la macelleria industriale.

Serve invece gente soddisfatta che si diffonda per il Paese, che si mescoli creando quell’intelligenza collettiva che a sua volta produca alto valore aggiunto. E che felicemente consumi (possibilmente designed&made in China). Ed ecco le ferrovie veloci, i kibbutz sperimentali, i matrimoni misti. Ed eccojiaowang jiaoliu jiaorong. In questo nuovo quadro, dove si tenta l’integrazione mentre si acuisce la repressione, la standardizzazione (biaozhunhua) del consentito è una forma di governance della diversità. Il sistema, come un corpo biologico, acquisisce ciò che lo potenzia, reprime ciò che è giudicato incompatibile: la doppa sì, il velo no. Del resto, la democratica Francia ha fatto qualcosa di molto simile.

IDENTITÀ FITTIZIE

Costituire, smembrare e poi ricostituire identità fittizie è un fenomeno universale che si accompagna al processo di valorizzazione capitalista. In Europa, l’imporsi della liberaldemocrazia borghese si accompagnò alla repressione di tutte le culture incompatibili con quel sistema: le streghe, gli eretici.

In Cina, si ha buon gioco a denigrare gli imam barbuti che con i loro sermoni clandestini riproducono arretratezza. Si ha buon gioco a reprimerli. A metà novembre, un tribunale di Kashgar ha annunciato la condanna a pene che vanno dai cinque ai sedici anni di 22 persone coinvolte in attività religiose illegali. I trasgressori – recitava l’agenzia Nuova Cina – facevano parte di tre categorie:imam non autorizzati a predicare; persone che svolgevano attività di culto illegali dopo essere state rimosse da incarichi religiosi; personale religioso che aveva commesso crimini vari.

Tra le accuse, incitamento all’odio etnico e alla discriminazione, sabotaggio dell’attuazione delle leggi, promozione della superstizione, organizzazione illegale di assembramenti volti a turbare l’ordine sociale, creazione di conflitti, diffusione di metodi criminali e, addirittura, stupro.

Si tratta di identificare – cioè fissare in un’identità – questi bersagli fin troppo facili. E reprimerli. Per sostituirli con il costume da operetta (anzi, da opera di Pechino). Questo è il trucco. Sostituire un’identità inquietante con una folkloristica. Entrambe rigide e perciò rivendibili: la prima sul mercato della politica (alla voce “repressione”), la seconda sul mercato, punto.

UGUAGLIANZA

Tuttavia, il processo di standardizzazione, come tutte le operazioni che implicano una riduzione della complessità, ha una serie di problemi: in Cina, si può sintetizzare parlando di “uguaglianza”.
La questione linguistica offre un’ottima sintesi: un giovane uiguro deve parlare il mandarino per avere opportunità, ma in questo modo la sua lingua originale diventa una sorta di dialetto locale e nel lungo periodo scompare.

Secondo Leibold, il problema va preso da un altro punto di vista: «La Cina, nonostante la stragrande maggioranza han, è già multilingue. Basti pensare al permanere del cantonese o del Shanghai hua [il dialetto di Shanghai, ndr]. Il problema è l’insegnamento, perché i cinesi sono molto bravi nella costruzione di scuole, ma hanno problemi a trovare buoni insegnanti formati in curriculum bilingue. Però non c’è alternativa».

Piuttosto che di uguaglianza, la nuova Cina “confuciana” – che considera cioè la diseguaglianza come “naturale” purché vada comunque a beneficio di tutti – parla di xiaokang shehui, società del benessere moderato: dove tutti siano ceto medio moderatamente soddisfatto; e dove chi è più ricco, lo sia per merito e non per privilegio, sempre attento al bene altrui.

Rendendo lo Xinjiang snodo cinese della futura cintura economica della Via della Seta (Sichou zhilu jingji dai) – una rete di strade, ferrovie, gasdotti, oleodotti, ma anche di network informatici – Pechino cerca di rilanciare sul piano dello sviluppo, moltiplicando i benefici economici, creando la grande torta da cui tutti potranno trarre la propria fetta: xiaokang shehui.
Ma come si traducono queste belle idee in Xinjiang?

«Il governo sta davvero cercando di creare una mescolanza tra le persone che vada di pari passo con lo sviluppo economico – spiega Julie Yu-Wen Chen – ma il processo va spesso in direzione contraria. La Cina sta sempre piùprivatizzando e limitando il ruolo delle grandi imprese di Stato, quelle che si attengono al sistema delle quote destinate alle minoranze. Le compagnie private non rispettano questi regolamenti ed esistono scappatoie che rendono possibile una discriminazione sui luoghi di lavoro. Il governo può farci poco, perché losciovinismo han è molto diffuso e rema contro».
La moltiplicazione della ricchezza, senza uguaglianza, può quindi solo moltiplicare anche il problema.

NÈ COLONIZZAZIONE, NÈ SMEMBRAMENTO

Non sembra però esserci altra soluzione a una progressiva redistribuzione dei benefici dati dallo sviluppo. Da un lato, la colonizzazione pura e semplice dello Xinjiang da parte degli han non ha funzionato. Dagli anni ’50 agli anni ’90 ha viaggiato spedita. Nel 1945, gli han erano circa il 5 per cento della popolazione, ora sono quasi il 40 per cento. Ma secondo dati ufficiali, negli ultimi anni sembra essersi invertita la tendenza: la popolazione uigura continua ad aumentare leggermente a causa delle eccezioni alla politica del figlio unico concesse alle minoranze (dal 46 per cento del 2004 al 47 del 2012), mentre gli han non stanno più crescendo allo stesso ritmo (dal 40 per cento tondo al 38).

«Tra il 2008 e il 2012, la popolazione uigura è aumentato del 9,6 per cento, mentre la popolazione Han è aumentato solo del 3,69 per cento. Tra il 2004 e il 2012, la popolazione uigura è aumentato del 19.57 per cento, mentre la popolazione Han è cresciuto solo del 10,71 per cento», precisa Leibold.

I dati relativi al periodo 2008-2012 rivelano che il declino ha inizio all’indomani dei disordini di Urumqi del luglio 2009. Probabilmente, sulla scia delle violenze, i membri dell’etnia maggioritaria cinese si sentono poco sicuri a trasferirsi nel “Far West”. Non è quindi giustificata, almeno cifre alla mano, l’accusa di pulizia etnica in corso.

Sull’altro lato, è però impensabile l’indipendenza di un “Turkestan Orientale”: «Dobbiamo mettere la Cina in una sorta di quadro comparativo», sostiene Leibold. «È molto diversa da Nigeria, India, Papua Nuova Guinea, Sud Africa ed ex Unione Sovietica, perché la demografia è molto diversa, così come la struttura politica e sociale. Una società fortemente divisa è un luogo di conflitto etnico endemico. La Cina non è una società fortemente divisa. Le minoranze sono irrilevanti numericamente in confronto agli han e il conflitto è isolato in aree come il Tibet e lo Xinjiang. Sono invece le tensioni che percorrono la stessa popolazione han a essere molto più problematiche».

Nel Celeste Impero, circa 120 milioni di cittadini sono considerati membri delle minoranze. Meno del dieci per cento della popolazione. Per il Partito, quello che succede a Hong Kong – esempio non casuale – o nelle campagne cinesi è dunque molto più preoccupante di qualsiasi cosa accada in Xinjiang.

LA VIA DI FUGA

Senza uguaglianza nello sviluppo, in un quadro in cui né l’assimilazione etnica né il separatismo sembrano tendenze credibili, il conflitto sembra destinato a durare. A farne le spese, come al solito, è l’anello più debole. «Studio soprattutto la diaspora uigura, quindi incontro gente che ha memorie dolorose e un grande risentimento verso il governo cinese e gli han», dice Julie Yu-Wen Chen. «Anche io, dato che ho un aspetto fisico han, sono stata aggredita un paio di volte. Non so come si può risolvere, spero solo che i leader etnici, sia in Cina sia all’estero, non incoraggino il risentimento, che può solo peggiorare la situazione».

Gli uiguri fuggono dalla Cina attraverso due strade. Una, dallo Xinjiang, va a sud e porta nella provincia dello Yunnan, che confina con Birmania, Laos e Vietnam. Secondo Pechino, affiliati uiguri alla Jihad internazionale passerebbero il confine proprio lì e poi, attraverso Thailandia e Malaysia si dirigerebbero in Medio Oriente e in Turchia. Le autorità cinesi accusarono dell’”11 settembre cinese” proprio separatisti uiguri che cercavano di fuggire in Thailandia ma che furono bloccati al confine.

L’altra via di fuga attraversa invece i passi del Tianshan, del Pamir e del Karakorum e porta negli “stan” dell’Asia centrale. Sono, queste, le cosiddette “autostrade sotterranee” che, secondo Pechino, accomunano la Cina a quei Paesi occidentali i cui cittadini musulmani espatriano per dirigersi in Iraq e Siria: a combattere nel nome di Allah. Di nuovo, in una coazione a ripetere senza fine, si crea un’identità fittizia: uiguro-uguale-terrorista.

 

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