Una notte d’altri tempi

La boxe, dopo molto tempo, ritrova una serata magica

di Christian Elia

Partiamo dalla fine. Dopo dodici belle riprese, vince Floyd Mayweather, per verdetto unanime dei giudici. Perde Manny Pacquiao, a testa alta. Lo statunitense resta imbattuto, unifica i titoli mondiali più importanti (Wbc – Wbo – Wba) della categoria welter.

Manny, alla fine, ha lamentato un dolore alla spalla destra che l’ha penalizzato, Floyd si è commosso ricordando a tutti l’estenuante fatica della boxe, i tifosi di PacMan (come viene chiamato Pacquiao) rimuginano su un punteggio dei giudici per lo meno impietoso verso il loro eroe.

Di base, Mayweather è il più forte. Scalda meno il cuore, come tutti i tattici, rispetto ai romantici alla PacMan, quelli che buttano il cuore oltre l’ostacolo. Ma è più forte. E’ imbattuto, ha nel mirino il record di Rocky Marciano, 49 vittorie e 0 sconfitte. Floyd ha annunciato il suo 49° match a settembre: conta di vincerlo e di ritirarsi imbattuto come il grande Rocky (quello vero).

Fin qui è quello che hanno potuto vedere tutti, giudicando ciascuno da par suo. Ma quello che è accaduto ieri, al MGM Grand Garden Arena di Las Vegas, è che la boxe, come una vecchia signora segnata dagli acciacchi degli anni, si è regalata (e ha regalato) un grande match.
Per definire ‘grande’ un match, anche se l’abusata definizione ‘match del secolo’ è esagerata come sempre, servono una serie di ingredienti.

Primo: due pugili veri. Ed ecco PacMan e Floyd, due grandi atleti, due ottimi boxeur. Ed erano anni che due pugili veri non si giocavano tanto su un ring. E lo facevano davvero, che è il secondo ingrediente di un grande match.Serve poi, al di là della scherma pugilistica, personalità. Se differenti, meglio ancora.

Floyd, al secolo Floyd Joy Mayweather Jr., è figlio di Floyd Mayweather Sr., e nipote di Jeff Mayweather e Roger Mayweather, una famiglia di facce da pugni. Una famiglia che, prima del multimiliardario Floyd, usava la boxe per guadagnarsi il pane.

Il primo coach di Floyd è lo zio Roger, perché il padre è dentro per spaccio di droga. E’ molto lontano dal figlio, che all’inizio usa il cognome della madre. Si allontaneranno di nuovo, quando Floyd si sbarazzerà del padre come allenatore, richiamando lo zio. Un duro contesto familiare, dove ci si spiega a suon di pugni.

Mayweather non potrà mai essere un idolo popolare. Acido, calcolatore, cinico. Con qualche scivolata razzista in passato, verso gli asiatici, e un’aggressione alla ex fidanzata, da cui esce pulito grazie a carisma, soldi, avvocati. Floyd non lo ami, ma Floyd sul ring è capace di portare l’incontro (e l’avversario) dove vuole lui. Una caratteristica di pochi.

PacMan, invece, è un fumetto. Una faccia da film, nato in uno sperduto sobborgo delle Filippine, quarto di sei figli, padre a sua volta di cinque figli, uscito vivo da una regione di scontri tra fazioni islamiste e governative, da cattolico che passa all’evangelismo.

Allo stesso tempo si dedica al basket e alla politica, da deputato al Parlamento filippino. La sua gente lo adora, nel mondo viene percepito come un eroe popolare, vicino ai problemi della gente. Si spende, si offre a questo amore, con la stessa generosità con cui combatte.

Quello di ieri sera, dopo tanti anni, è stato un grande match di boxe. Un grande incontro di uno sport, come ricordava un commosso e inedito Floyd alla fine, che costa tanto in termini di fatica e di lucidità.

Per una notte, è stato bello rivedere il fascino di uno sport popolare, di vecchi leoni che fanno a pugni contro la vita da sempre. Per una notte, è bello sognare di nuovo di grandi incontri, grandi pugili e grandi romanzi popolari. Domani ci sveglieremo, tritati da ingaggi e sponsor, tv e markenting.
Ma oggi sogniamo.

 

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