La foto è un momento, non abbiamo un sonoro che ci dica tutto quello che vorremmo sapere per non dire cose a caso. Ma la foto viene da noi e ci restituisce solo quel momento.
di Angelo Miotto
@angelomiotto
E lì ci vedi una famigliola intenta a pulire un muro della città. E due bambini che con le loro manine cercando i cancellare Carlo Vive, la scritta lasciata da una mano anonima il primo di maggio.
La foto mi fa paura, prima, poi rabbia, quindi mi amareggia. E non per l’altalena emozionale, poco emozionante a volte, dei commenti sui cattivi e sui buoni, su un piccolo pamplhet che si potrebbe scrivere sulla raffigurazione iconica e nella scelta dei toni e colori della nostra bella lingua per descrivere fuoco e fiamme, inferi che si richiamano nelle nostre coscienze, e la riparazione come momento di purificazione salvifica che dà un’immagine lucente alla Nuova Città, bene comune dei suoi civis.
Cerco di concentrarmi sulla foto, perché il senso profondo di una relazione di potere e di forza che si agita nella mia testa è in quel gesto che io vedo animarsi, anche se è immoto.
Piccole mani che cancellano una scritta, parole, come se fossero solo sporco, solo sfregio, solo una tag di vernice. Fra le scritte anti-sistema, i fuck Expo, gli Acab e le parole scritte sui vetri, quelli rimasti intatti, delle banche, questo muro ha una scritta che per me e per molti significa. E il vederla scomparire con impegno innocente a me fa male, un male profondo.
Penso a cosa significhi cancellare le parole e la metafora potente è in agguato, con le migliori intenzioni, che comprendo, ma l’effetto è quello: si cancellano due parole che sono una vita.
Che sono uno scandalo ancora oggi a quattordici anni di distanza, un processo negato, un processo doppiamente negato, una miriade di commenti che tornano a infierire sul corpo di un ragazzo che non conoscevo, che non è per me un simbolo di resistenza alle divise, ma un simbolo di giustizia negata, un nome che evoca la sconfitta dello stato di diritto, quello che non dovrebbe aver paura di affrontare sé stesso in nome della credibilità delle proprie istituzioni.
Quelle giovani mani non sanno che Carlo Vive è una scritta che popola muri di tante città del mondo, che molti fotografano e mettono insieme perché l’ingiustizia non deve essere dimenticata, ma serve come promemoria nel dirci che ci sono ancora tanti passi da fare nei meccanismi della giustizia, per chi crede che il diritto abbia bisogno di coerenza.
Immagino la critica: quella scritta è la firma del passaggio di chi è l’incarnazione, da qualche giorno, del male assoluto, colpevole di distruggere e di sfregiare, quelli che anche molti dei miei miti conoscenti sarebbero pronti a vedere all’ergastolo se non peggio.
Non si scrive sui muri, mi hanno insegnato. Poi ho visto scritte belle e murales importanti cancellati perché fastidiosi nel messaggio. E ho letto i messaggi di lotta sui muri di tante città. E quando sono tornato dopo anni con leggi che comminavano anni di carcere per una scritta ho pensato che la democrazia e lo stato di diritto avevano perso.
Le scritte che sporcano le vedo anche io, così come un bel muro non deve esser per forza una pagina dove esercitare la propria memoria, o lasciare un pensiero. Però.
E se non mi piacciono le strade della mia città imbrattate e affumicate, non penso nemmeno che la Milano che ‘si rimbocca le maniche, che lavora silenziosa, e che è capitale del fare’ sia il vero unico volto di questa complessa città, quanto un’azione emotiva, comprensibile e legittima, che ha dato modo di esprimersi a quanti hanno deciso di essere presenti. E basta, però. Non è l’anima migliore, non è la vera anima, non si riparte, perché non ci si è mai fermati, non si risorge, perché non siamo mai morti, non ci si può ergere a cittadini migliori, perché una città la fanno tutti i cittadini, anche quelli che dovranno rispondere dei propri atti (con proporzionalità si auspica). Non decidete voi che non ci possano essere, o che non possano stare: l’unico dato comune è il rispetto delle regole di una comunità. Chi non le rispetta non è da azzerare, ma da punire in maniera proporzionale all’offesa.
Cancellare alcune scritte è come cercare di chiudere bocche, di fermare una teoria di tradizioni orali che non si fermeranno perché sono patrimonio di molti, di tanti che hanno a cuore che si possano risolvere in maniera diversa i conflitti.
Carlo vive è il grido di chi chiede giustizia per le violenze di Genova, è un monito per quanto non deve accadere più, è una richiesta di un nuovo rapporto di forza fra chi esercita il dissenso e chi detiene il potere.
Quelle lettere che scompaiono dal muro si accenderanno su un altro, perché la città vive, i suoi muri vivono non solo di freschi e riposanti perfetti e lindi intonaci, non solo di ordine e buoni sentimenti, perché la complessità è difficile da adattare a due colori, con la pretesa molto contemporanea di poter dire sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato senza diritto di capire, che non significa condividere, perché nasce o perché cresce un fatto così distante dalle proprie radici comuni.
Sono i giorni delle etichette: sarò stato buono o cattivo a scrivere queste parole?
Avrò giustificato l’imbrattamento dei muri? Quel che c’è scritto non importa? L’insulto a un tifoso o un pezzo di dolorosa storia del paese sono la stessa cosa?
Non è questione di stare a difendersi dai detergenti delle istituzioni, quanto capire che uno slogan non è solo un insieme di segni da cancellare dal muro per opera di una allegra famiglia che pensa di aver insegnato il senso civico ai propri figlioli. A volte è anche di più.