Il Brennero secondo Jonathan

Reportage dall’Alto Adige, tra profughi che sognano
la Germania e pattuglie “trilaterali” che danno loro la caccia, volontari che li aiutano e leghisti che li contestano

di Lorenzo Bagnoli e Paolo Riva,
da Bolzano

 

Il confine a meno di un chilometro. La stazione, poco prima, al cospetto delle Alpi. Tutto intorno, le poche case dei residenti, così piccole e sole sotto i picchi. Fuori dal bar dello scalo, due abitanti sorseggiano una birra. «Il Brennero – dice il più giovane – è il posto più bello che c’è». Per lui forse. Non certo per Jonas.

Immaginatevi giorni di deserto. Sentite mesi di ansiosa incertezza. Pensate ad un’ossessione che ha suono, ma non ha corpo, che vi accompagna da sette anni. La odiate con tutto il cuore, ma non potete farne a meno: è l’unica insensata ragione che vi spinge ancora a camminare, a salire su un treno, a dormire in stazione, nonostante negli occhi non vi si legga altro che un’atavica stanchezza. Ecco, siete Jonas. Il Brennero non vi piace: non in questa vita.

Jonas viene dall’Eritrea: «Ho lasciato il mio Paese perché dopo la scuola non trovavo lavoro» spiega in un buon inglese. Ha addirittura osato scappare per un desiderio e non per la guerra. «Ora ho 20 anni: è da sette che viaggio. Prima ho trascorso alcuni anni a Khartoum in Sudan, dove facevo le pulizie, e poi altri in Libia, prima di attraversare il Mediterraneo». Quindi, la risalita dello stivale, passando per Roma. Ora è fermo alla stazione del Brennero, penultima casella prima della fine del gioco dell’oca. Il premio: rifarsi una vita, in Germania.

«Sono senza soldi e senza documenti» ripete più volte.

È consapevole almeno dei motivi che lo costringono in questo luogo che non saprebbe nemmeno collocare su una cartina geografica. Non sa precisamente nemmeno che cosa sia una frontiera: dalle sue parti sono disegnate sulla sabbia. L’unica cosa di cui è certo è che non è in Germania, mentre lui è lì che vuole arrivare perché, gli ha detto qualche connazionale, «lì si fa una vita migliore». Sicuramente migliore di quella che gli si prospettava in Etiopia quando aveva 13 anni.

Insiema a lui c’è Jonathan, 32 anni, dal Camerun, fortuito compagno di sventura. Tanto è spaventato e affaticato Jonas, tanto Jonathan vorrebbe picchiarsi il petto e affrontare la vita. Rapper, ha lasciato la sua città perché le sue rime infastidivano il governo. Tutta la vita che lo sta attraversando ora è linfa per le sue canzoni, i cui testi sono raccolti in un quaderno marroncino, trasformatosi in una personale versione dell’Odissea.

 

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L’ultimo ostacolo che impedisce a entrambi lo sconfinamento si chiama pattuglia trilaterale, la più recente tra le prove che devono affrontare i migranti decisi a non rispettare i superati regolamenti Ue. «Sono composte da un poliziotto italiano, uno austriaco e uno tedesco» spiega Mario Deriu, sindacalista del Siulp, la sigla dei poliziotti. «Sono nate nel 2001 per scoraggiare i borseggiatori e per dare un segno dell’unità d’intenti degli Stati europei» continua il poliziotto in servizio a Bolzano. Col tempo, però, hanno cambiato obiettivo e oggi «tutti i treni internazionali diretti a Monaco di Baviera hanno la scorta trilaterale, l’inutile scorta trilaterale», precisa Deriu senza giri di parole. Ora queste pattuglie, hanno il compito di identificare i migranti irregolari che tentano di passare la frontiera ma, per l’agente, si tratta di una missione impossibile.

«Non è possibile chiedere a tre agenti per volta di fermare un esodo biblico». E infatti l’esodo continua, ma con sempre maggiori difficoltà.

Jonas, per esempio, una volta che la “trilaterale” l’ha fatto scendere dal treno su cui era salito, ha passato la notte all’addiaccio a Trento e poi è rimontato su un convoglio regionale, decisamente meno controllato. Con quello ha superato il confine ma, una volta in Austria è stato trovato nascosto nei bagni della prima stazione ed è stato riportato in Italia, in virtù di un accordo bilaterale con il nostro Paese che consente alle forze dell’ordine di Vienna di «riammettere passivamente» i migranti trovati senza documenti in un raggio di 30 chilometri dal confine. Così succede dal 1998, ma ora i governi dei tre Paesi hanno deciso di puntare in aggiunta anche sulle trilaterali.

Il risultato è che, se prima del rafforzamento di queste pattuglie la maggior parte dei profughi si fermava alla stazione del Brennero, oggi lo scalo in cui sosta temporaneamente il maggior numero di stranieri è quello di Bolzano. Ci lavora Andrea Tremolada che per l’associazione Volontarius, in stazione, coordina l’assistenza umanitaria iniziata a fine aprile. «Bolzano non è una meta, è un luogo di transito» spiega. I treni più gettonati sono quello delle 8.05 che arriva da Lecce e quello delle 10 proveniente da Roma. È a quell’ora che lo scalo soffre di più, con punte di anche 300 profughi accolti sulle banchine e in un paio di locali messi a disposizione dalle ferrovie. Al giorno, nella prima metà di maggio, ne sono cento in media. «Ormai sappiamo che tra lo sbarco e il giungere qui passano due o tre giorni circa», continua Tremolada.

«Complessivamente, da dicembre ad inizio maggio, tra il Brennero e Bolzano, abbiamo assistito 3.500 persone. Tutte ripartite nel giro di poche ore, al massimo una notte».

«La maggioranza ora proviene dall’Eritrea, poi ci sono altre nazionalità africane e alcuni siriani, ma in misura minore. Tutti sono spaesati e impauriti» prosegue l’operatore sociale. Temono di essere incarcerati o identificati». Nel primo caso, potrebbero essere i ricordi dei centri di detenzione libici a suggerire certi pericoli. Nel secondo, l’ipotesi che ai migranti vengano rilevate le impronte è reale, anche se non si concretizza in modo sistematico. «Quanti ne passino è impossibile dirlo» spiega Deriu. «Di certo c’è solo che ogni anno, nella zona di Bolzano, vengono identificati tra i 5mila e i 7mila migranti che tentano di passare la frontiera illegalmente. Alcuni, ultimamente, anche camminando lungo i binari o accanto all’autostrada».

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In alternativa, ci sono i trafficanti, che chiedono cifre spropositate per portare le persone oltre confine in auto o in furgone. «Ad usufruirne sono spesso le famiglie fuggite dalla Siria perché hanno maggiori risorse economiche» prosegue il funzionario di Polizia. È verosimile che un buon numero delle decine di migliaia di siriani che ha fatto domanda d’asilo in Germania e Svezia vi sia arrivato proprio in questo modo, evitando i controlli sui treni e al tempo stesso finanziando delinquenti e criminali. Un fenomeno grave, ma meno evidente che, proprio per questo, non ha scatenato le proteste andate in scena in stazione a Bolzano contro i migranti. Ad organizzarle la Lega Nord che alle elezioni comunali del 10 maggio ha raddoppiato i consensi rispetto alla tornata precedente, toccando un sorprendente 11 per cento. Quella dei militanti del Carroccio però non è stata l’unica reazione della comunità bolzanina.

C’è anche chi la stazione ha deciso di frequentarla non per lamentarsi, ma per dare una mano. Oggi i volontari sono circa un centinaio: metà legati all’associazione Volontarius e metà riunitisi in un gruppo spontaneo chiamato “Cittadini liberi”.

«Abbiamo assistito a una mobilitazione dal basso che ha toccato tutta la provincia» spiega Monika Weissensteiner.

Per la Fondazione Alexander Langer, ha seguito le vicende dei profughi da settembre con un lavoro di monitoraggio e, a tratti, anche di supporto umanitario. «I volontari, prima, hanno fornito aiuto alla stazione del Brennero e, poi, con l’arrivo delle pattuglie trilaterali, hanno fatto pressione sulle istituzioni affinché venisse garantita l’assistenza anche a Bolzano, dove a tutt’oggi è impegnato un gruppo di persone molto eterogeneo». In un pomeriggio di inizio maggio, sulla banchina dello scalo, lungo il binario 1, ne sono presenti quattro: un uomo sulla settantina, col pancione, i pantaloni della tuta e il cartellino Volontarius e tre giovani tutti con indosso una pettorina blu elettrico con la scritta «Aid worker», anche in arabo.

I primi due frequentano le superiori, al massimo i primi anni di università. Seduti su una panchina, addentano un kebab, lui con le guance ancora glabre, lei con il velo islamico a coprirle il capo. La terza è una ragazza sulla trentina, con i capelli raccolti e le All Star ai piedi. Risiede a Trento ma lavora nel capoluogo altoatesino e, quando un’amica le ha proposto di diventare volontaria, ha accettato.

«Ho pensato che se mi trovassi io nelle loro condizioni mi farebbe piacere trovare qualcuno. E poi, sono turni solo di due ore…»

Nel bel mezzo del suo, viene segnalato l’arrivo di un convoglio da Milano. La giovane donna si affretta verso la banchina e scruta con attenzione le porte dei treni, con alcuni poliziotti italiani che fanno lo stesso pochi metri più in là. Attende l’arrivo di profughi e migranti, ma dall’Intercity scendono solamente turisti e pendolari.«Gli immigrati arrivano soprattutto al mattino e ripartono subito» spiega l’uomo. «Facciamo giusto in tempo a dar loro cibo e vestiti e a fargli fare un controllo medico, che c’è sempre, per tutti, a tutte le ore» dice con una punta di orgoglio. Lo stesso che ha spinto i “Cittadini liberi” a stipendiare una donna delle pulizie con i fondi del gruppo. Si occupa dei servizi della stazione in aggiunta al normale personale, per tenere i bagni del sottopassaggio sempre in buone condizioni e fare in modo che il transito dei profughi non crei eccessivi disagi ai frequentatori abituali dello scalo. Un eccesso di zelo? Forse. Oppure un dettaglio rivelatore dell’identità del gruppo che, da qualche tempo, ha eletto al suo interno dei rappresentanti per dialogare meglio con le istituzioni e il terzo settore. «Devo dire – ribadisce Weissensteiner – che sono stati veramente una sorpresa». Una delle poche positive di questa cosiddetta emergenza immigrazione.

 

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