Ritorno all’Heysel trent’anni dopo

Un racconto a quattro mani, a montaggio alternato, dai campi della Valchiusella e dai sobborghi di Liverpool, direzione Bruxelles, una traversata in auto lunga trent’anni fino al 29 maggio 1985. S’intitola Il giorno perduto. Racconto di un viaggio all’Heysel, il romanzo di Gian Luca Favetto e Anthony Cartwright, edito da 66thand2nd

di Valeria Nicoletti

PIATTO PERDUTO 3.qxd:Layout 1«Sarà mica una città Bruxelles! È una vacanza. Una vacanza di città abitata da stranieri – tutti forestieri nel cuore dell’Europa, anche i belgi residenti. Il suo centro ha qualcosa di fuori dal tempo, pensa, è un abbozzo di futuro con dentro molto passato: come se mancasse il presente». È il racconto di un’occasione mancata, sospesa nella memoria, il romanzo sulla tragedia dell’Heysel, il giorno della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, trent’anni fa, di Gian Luca Favetto, scrittore, giornalista e drammaturgo torinese, e Anthony Cartwright, autore originario del Black Country, nelle Midlands occidentali inglesi, terra di miniere di carbone, fonderie di ferro e centri siderurgici.

Un’avventura letteraria che parte da due geografie diverse, «raccontate in una lingua diversa», riporta Gian Luca Favetto, «confluite nella scrittura, dove uno è stato il primo lettore dell’altro e siamo arrivati alla fine ad adottare quasi un linguaggio comune, ritmicamente affine». Favetto, in italiano, e Cartwright, in inglese (con traduzione di Daniele Petruccioli), raccontano il primo le storie di Charlie, Mich, Angelo e Miranda, quattro «sopravvissuti all’adolescenza» che partono in una Renault 4 bianca dalla Valchiusella, e il secondo il viaggio di Christopher, detto Christy, 23 anni, poche aspirazioni, fuoriuscito dalla generazione dei minatori distrutti dall’amianto.

Una cronaca settimanale della preparazione alla finale di Coppa dei Campioni, di un buco nero nella storia dello sport internazionale, ma anche dell’epilogo di una generazione, di uomini che, tirando un calcio a un pallone, erano finiti nei sogni di altri uomini, il lieto fine perduto di disperazioni singole e irreparabili.

Una narrazione che si dilata, giorno dopo giorno, seguendo il viaggio, la vera posta in gioco, ancora prima del fischio d’inizio. Si parte allora, ma l’immaginazione del viaggio si rivela più intensa del viaggio stesso: la strada che dai sobborghi di Liverpool porta a Bruxelles ha lo stesso grigio della periferia, «il treno scivola in una interminabile schiera di case popolari, casermoni lunghi e stretti e facciate fatte con la ghiaia tipiche del dopoguerra», si piomba in un fotogramma di un vecchio film di Mark Herman, «Grazie, signora Thatcher», ci si aspetta da una pagina all’altra di sentire gli ottoni della banda dei minatori in sciopero suonare per l’ultima volta, prima di soccombere al giro di vite della lady di ferro.

E anche dalla Valchiusella, poco lontano da Torino, la strada sembra annientare, una dopo l’altra, le illusioni della partenza, anche la piazza più famosa di Londra, Piccadilly Circus. Quando c’è una bolgia si dice «sembra Piccadilly Circus», e adesso eccola qua, proprio di fronte a lui, ma questa folla non è niente, rivoli di persone senza meta». L’eccitazione sembra dissolversi nei chilometri, «tre giorni fa si bagnava in Chiusella e ora è qui e non sa che cosa volere».

Vorrebbe non desiderare di essere altrove, per una volta, vorrebbe godersi quello che sta vivendo, quello che sta aspettando, godersi l’ora il minuto il luogo dove si trova e, arrivati di fronte allo stadio, anche il famoso Heysel pare quasi il Pistoni di Ivrea.

«Christy non ha un lavoro, ha 23 anni, non è un ancora un uomo ma non è più un ragazzo», racconta Cartwright, «il tifo per la squadra di calcio se lo ritrova quasi tra le mani, come unico appiglio per darsi un’identità». Christy parte per vedere il Liverpool, ma anche per sfuggire all’apatia del confine acqueo del mondo, la riva del fiume Mersey dove ha trascorso tutta la vita, alle domande della nonna, ai polmoni del padre che traboccano di amianto, a una vita scandita dai sussidi di disoccupazione. Per essere finalmente «un uomo, con una meta, un uomo che allargherà la sua cerchia di conoscenze», anche se ha ancora i soldi in tre posti diversi, come gli ha consigliato la nonna prima di prendere il treno.

La partita era l’inizio di tutto, di una esistenza altra. Allo stadio dell’Heysel non poteva che essere così, c’era stato anche Mennea. «Grande Mennea, porta fortuna!».

La Grand Place, il 29 maggio 1985, poche ore prima del fischio d’inizio, non esiste, è un luogo smarrito nel «viavai delle persone, a gruppi chiassosi, a coppie, a tribù, singole figure solitarie, turisti, cittadini frettolosi, giovani, vecchi, bambini tenuti per mano; un affollamento in quell’angolo, un altro laggiù; mute di tifosi inglesi, con sciarpe, birre e schiamazzi; gli italiani festosi e invadenti; due poliziotti, quattro, cinque, soltanto cinque poliziotti; grida, cori, canzoni: non fai in tempo a registrarlo, e tutto per un attimo svanisce – il lungo attimo in cui, mentre entri, si manifesta la piazza». La piazza appare fugace, «è il luogo dove io e Anthony ci siamo incontrati, di persona, alla fine del nostro viaggio», racconta Favetto, svelando il dietro le quinte del libro, «abbiamo rifatto i passi che i nostri protagonisti avrebbero potuto fare, gli stessi che qualcuno avrà sicuramente fatto quel pomeriggio di trent’anni fa».

«Non ridete», è un’ammonizione preventiva quella di Favetto, alla presentazione del libro, «ma abbiamo voluto fare poesia, raccontare una storia e non restituire i fatti, creare letteratura e non trascrivere una cronaca».

Nelle pagine finali, la narrazione di quello che accadde tra le 19.21 e le 21.40 all’Heysel è diluita nello spazio bianco del foglio: «per raccontare i fatti, abbiamo dovuto allontanarci», una pura scelta stilistica, si lascia spazio a qualche trafiletto di giornale, a ricordi confusi e poi ai nomi e alle età delle 39 vittime, il settore Z compare una sola volta. La letteratura diventa rarefatta, anche graficamente, come se i ricordi fossero frammenti che scivolano da un lato all’altro della pagina, rimasti lì in un angolo della testa dopo trent’anni. «Era un bellissimo imbrunire», riporta Favetto.

La narrazione rallenta. Poi solo un presagio, la promessa di non dividersi, di ritrovarsi alla macchina insieme per festeggiare, ma «c’è il rumore di qualcosa che crolla, un gusto di polvere, un po’ di intonaco cade dall’alto, dai muri dello stadio, si disintegra nell’aria e tocca terra come il ticchettio della pioggia. Vede una macchia di cemento scoperto, come un livido. Non sa in quanti ci avranno fatto caso. Pensa a quei palazzi abbandonati, con gli squarci aperti sui muri – gli alberi ci crescono dentro. Se ci sarà casino, dice a sé stesso, scapperà».

Dopo, solo macerie, disillusione, la partita che non è più una finale, ma la fine di tutto, non è solo una tragedia assurda, perché l’assurdo non basta, anzi «è così banale che le squadre entrano in campo», si continua a giocare e la vittoria viene liquidata in poche righe, con il luccichio sbiadito di una coppa alzata in uno stadio cadente e una schiera di spettatori immobili, cadaveri, sotto le rovine degli spalti.

«In Inghilterra, la tragedia dell’Heysel si confonde in un periodo buio, provocato dalla crisi, dalle politiche di Thatcher, dalla disoccupazione, 56 persone erano morte l’11 maggio dello stesso anno, in un incendio allo stadio di Bradford», racconta Cartwright, «quello che sentivamo era una sensazione di sconfitta, di essere inevitabilmente passati dalla parte di chi aveva perso», di essersi lasciati sfuggire anche l’ennesima occasione per risalire.

Dopo trent’anni, Christy, Mich, Charlie, Miranda, Angelo sono ancora lì. Alcuni sono morti, altri no, sembra quasi che alla fine non faccia differenza, qualcosa è andato via per sempre alle 19.21 di trent’anni fa. Sono lì, a confrontare obiettivi e risultati, a fare un bilancio tra quel pomeriggio alla Grand Place e quello in un caffè di Parigi, cosa è rimasto, cosa è andato via. Quale vita è stata la loro, quanti sogni sono annegati, quante illusioni lasciate andare sulle rotaie, abbandonate una volta per tutte, lungo il viaggio di ritorno. Molto è scivolato via nel tempo, per fortuna. Perché «c’è un limite a quello che una persona può portarsi dentro». Si fa una selezione dei ricordi, tra quelli più innocui, con cui si può riuscire a convivere. «La memoria è una scelta, non un obbligo», è istinto di sopravvivenza.

 

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