Agrigento, la città esplosa

Reportage dal capoluogo siciliano che domenica sarà chiamato alle urne

testo e video di Tano Siracusa

Agrigento nel secondo dopoguerra era ancora la cittaduzza di Pirandello, arroccata sul colle occidentale dove sorge la cattedrale normanna. Per più di un millennio la città medievale, cinta da mura e porte a partire dal XIV sec. dalla famiglia dei Chiaramonte, ha contemplato dall’intrico delle sue viuzze, scalinate, slarghi e cortili le rovine della città greca e poi romana giù nella valle e la quinta del mare, che dalla collina sembra sollevarsi, inclinarsi verso l’alto, fino a confondersi con il cielo

Pirandello nasceva in questa città nel 1867 (si chiamava Girgenti allora), quando il Regno d’Italia cominciava ad abbattere e manomettere la cinta muraria e le porte della città, di cui durante il fascismo veniva abbattuto anche il lato meridionale per la costruzione della nuova stazione ferroviaria.

Nell’immediato secondo dopoguerra veniva urbanizzata la collina orientale di Agrigento dove sorgeva una villa comunale, villa Garibaldi, mentre fra la città medievale e la valle , ai margini della collina occidentale, veniva eretta una imponente quinta di palazzoni. Una montagna di cemento sugli orti e la campagna che declinavano verso la valle e il mare: un gigantesco diaframma di cemento fra le due antiche città edificate con conci di tufo arenario, una pietra che al tramonto sembra dorata.

Il moderno ad Agrigento irrompeva nel segno di una nuova verticalità, di un americanismo ingenuo e arrogante, un gigantismo che oscurava con la sua ombra la città medievale spezzandone la continuità visiva con la città classica.

Nel 1966 una vasta frana faceva crollare decine di nuovi palazzi e di vecchie case in tufo e proiettava Agrigento sulla scena nazionale e internazionale come paradigma di scempio urbanistico. Pochi anni dopo la relazione ministeriale Martuscelli documentava il contesto di illegalità, di abusi, connivenze e complicità fra ceto politico-amministrativo e imprenditoria d’assalto che aveva reso possibile quel disastro.
L’opera di dissesto ambientale e paesaggistico compiuta dagli abitanti della città, amministrati e amministratori, proseguiva negli anni ’70 da parte dello Stato con la costruzione del viadotto Morandi, cinque chilometri di faraonici pilastri conficcati sulle catacombe paleocristiane lungo il versante occidentale della valle, verso Porto Empedocle. Da allora la dismisura e il gigantismo hanno affiancato alla verticalità anche il segno di di una orizzontalità abnorme.

Con una popolazione di 40 mila abitanti il territorio urbanizzato di Agrigento nel secondo dopoguerra si estendeva per un chilometro e mezzo lungo l’asse est-ovest, frontale rispetto al mare, e per meno di un chilometro lungo l’asse collinare sud-nord. Oggi con meno di 60 mila abitanti la città ha una superficie urbanizzata che supera i dieci chilometri lungo l’asse est-ovest e altrettanti lungo l’asse nord-sud. Una estensione da territorio metropolitano, nel segno permanente della dismisura e percorribile soltanto con mezzi privati di trasporto per la cronica inadeguatezza del servizio pubblico.

Un modello di città antiecologica, di spreco.

Spreco di spazio, di risorse pubbliche e private, e naturalmente di cemento, spesso depotenziato, di cattiva qualità: attorno al centro storico in disfacimento, dove la Cattedrale normanna è minacciata da una frana e diverse case e palazzi negli ultimi anni sono crollati per incuria e abbandono, è sorta una città di periferie.

Una zona industriale di isolati capannoni, di astronavi architettoniche abbandonate (una doveva essere la sede dell’ASI), viali deserti, scheletri di costruzioni che sembrano le installazioni di artisti depravati.
Quartieri come Fontanelle e Monserrato, con file di caseggiati condomoniali senza una piazza, un centro, un’idea di spazi comuni, un abbozzo di percorsi pedonali, o come Villaggio Mosè, vastissima area urbanizzata a levante della valle dove anche una chiesa è abusiva, e dove negozi, locali, alberghi, condomini e ville, supermercati e autofficine offrono un modello esemplare di non-città. Un agglomerato spaesante, orientato nella deformazione urbanistica unicamente dall’interesse privato e speculativo.

O come s. Leone, un piccolo borgo marinaro fino agli anni ’60, trasformato in una proiezione vacanziera della città in collina: migliaia di seconde case, villini pretenziosi e scheletri di palazzi, condomini e locali in un incastro casuale di strade senza marciapiedi che straripa di folla durante l’estate e si svuota d’inverno, dove il mare, fatto arretrare di centinaia di metri per la costruzione di un lungomare ‘riminese’ a ponente, ha sommerso in meno di venti anni alcuni chilometri di spiaggia e di fascia boschiva a levante.

Unica eccezione al non-senso urbanistico il quartiere di Villaseta, insediamento progettato e rapidamente realizzato dopo la frana del ’66, più vicino a Porto Empedocle che ad Agrigento. Una piccola utopia urbanistica i cui spazi di socialità destinati al tempo libero e di relazione, pavimentati e destinati ai pedoni sono rimasti in disuso o invasi dal traffico veicolare, mentre le scale, invase dalla vegetazione e dai rifiuti, portano davanti il comando dei Vigili Urbani.

Accanto a Villaseta, un nuovo, grande centro commerciale è diventato di fatto il nuovo centro di una città ‘esplosa’, come l’ha definita Boeri in una sua recente visita.

A cucirne gli strappi, mastodontici viluppi e giostre di ponti, viadotti e cavalcavie: ulteriori dismisure.
Uno dei territori del Mediterraneo più armoniosi e ricchi di passato, rimasto sostanzialmente immutato per quasi un millennio, è stato irreperabilmente manomesso in meno di mezzo secolo. Nel 2016 saranno trascorsi 60 anni dalla frana. Da allora Agrigento si autorappresenta come vittima di una deformazione mediatica, di un campagna di denigrazione che la descrive come la città dei ‘tolli’ (così qui chiamano tuttti i palazzoni) e degli abusivi, senza mostrare l’integrità della valle: dove in realtà sono censite circa 600 costruzioni abusive non sanabili, in zona di inedificabilità assoluta. Cosi è, se vi pare.

E intanto per le vie della città, soprattutto nei quartieri della vecchia Girgenti, si incontrano centinaia di immigrati. La città è al centro di un mare e di un’area geopolitica in fiamme. A Porto Empedocle si susseguono gli sbarchi, Lampedusa è a una notte di traghetto.

Città ingovernata, forse ingovernabile, Agrigento si si accinge a eleggere il nuovo sindaco.

Il favorito sembra Calogero Firetto, già sindaco di Porto Empedocle, deputato regionale, una carriera politica nell’UDC, sostenuto (sulla carta) dal PD, da Alfano (agrigentino), da alcune associazioni culturali, da una vasta area della sinistra esterna ai partiti.

La notizia è che Firetto, da sindaco di Porto Empedocle sostenitore della realizzazione di un rigassificatore (che pare non si farà), ha nominato come primi assessori Beniamino Biondi, un giovane intellettuale indipendente impegnato nel rilancio culturale del centro storico e Mimmo Fontana, presidente regionale di Legambiente da sempre contrario alla realizzazione del rigassificatore e storico oppositore del fronte degli abusivi di zona A. Il candidato sindaco Firetto, non senza reticenze e ambiguità, parla di necessaria revisione degli strumenti urbanistici, di nuova mobilità, di consumo zero del suolo, di dislocare l’università in centro (oggi è in un anfratto periferico, sconnesso dal centro). Argomenti di sicuro poco popolari. Il principale avversario, Alessi, sostenuto dal centrodestra è il presidente dell’Akragas, la squadra di calcio neopromossa. Sulla stampa locale che gli è vicina definiscono mascalzoni i fotografi che schiacciano con i teleobiettivi le colonne doriche dei templi sul fronte dei palazzoni e scrivono che la valle è integra. Sventolano il drappo rosso del contrasto all’abusivismo dinanzi al toro rabbioso e impaurito di una città cresciuta nello scambio fra abuso e sua mancata sanzione.

Che ad Agrigento si voglia davvero fare i conti con il disastro avvenuto, invertire la tendenza, decostruire, recuperare la centralità della città murata, provare a risanare quanto è possibile, lo credono in pochi.

E tuttavia Agrigento è anche la città di s. Calò, il santo nero e bastonatore dei prepotenti, che un altro popolo, un popolo antico e ribelle porta in processione ogni prima domenica di Luglio. Per un giorno la città moderna scompare, il santo nero ritesse da est ad ovest, da sud a nord i percorsi delle vecchia città murata, fino a passare come un ubriaco fra strappi e tonfi, invocazioni e imprecazioni, davanti la cattedrale di s. Gerlando, primo, austero vescovo normanno e patrono della città. Durante la processione non vi sono rappresentanti del potere, nè di quello laico nè di quello ecclesiastico.

Mimmo Fontana e Beniamino Biondi tengono per il santo nero, non certo per l’algido vescovo francese.
Quelle nomine assessoriali di Firetto pendono sulla campagna elettorale e sulla città come un inedito punto di domanda.

 

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