Palestina. L’ostinazione dell’esistenza

di Cecilia Dalla Negra dai Territori Palestinesi Occupati, tratto da Osservatorio Iraq

Ritorno in Palestina, tra Occupazione, colonie e resilienza. E l’essenza del “sumud”: l’ostinato resistere, come le radici degli alberi

“Portami lì con il vento e facciamo insieme una passeggiata per Gerusalemme. Salutami ogni città, ogni pietra, ogni palestinese che resiste”.
Il messaggio mi arriva quando sono atterrata da poche ore. Sono davanti alla porta di Damasco, soglia d’accesso alla Città vecchia, che si staglia contro un cielo luminoso e da il benvenuto ai visitatori.
L’amica che me lo manda è nata e cresciuta in Giordania e Gerusalemme, come milioni di palestinesi, non l’ha mai vista. Né mai potrà farlo, non finché lo status quo nel quale questa terra è strozzata resterà tale, nell’inerzia di classi politiche ferme, nell’indifferenza complice della comunità internazionale.
Storie già viste, già sentite migliaia di volte, ma che non smettono di colpire chi non ha dovuto faticare poi molto per raggiungere questa terra negata a chi da questa stessa terra proviene. “Turismo”, basta dire al soldato di turno che controlla il confine con la Giordania. “Be nice, be stupid”, è il consiglio da seguire per non destare troppi sospetti davanti alle domande inquisitorie che vengono rivolte per potere entrare nel paese, poste da chi quel paese lo occupa e ne controlla ogni accesso.

“Enjoy your trip”, un bollo sul passaporto, pochi minuti su un service e Gerusalemme è lì, splendida e contraddittoria, come l’avevi lasciata. Ma guardandosi intorno, sentendone gli odori, ritrovandone il caos rumoroso e vitale, dedicare un pensiero a chi non può fare ritorno è immediato.

Tornare in Palestina dopo 5 anni di assenza significa anche questo. Significa sentirsi immediatamente a casa, come se si fosse partiti solo ieri. Significa ritrovare sorrisi, volti, sapori, profumi e colori. L’aria fresca di Gerusalemme a maggio, quando cala la sera e le grandi palme che circondano le mura della Città vecchia si agitano inquiete. Il caos del suq e i ragazzini che spingono carretti carichi di frutta e verdura; i negozi colorati, i vicoli stretti e tortuosi che si aprono, improvvisamente, lasciando ogni volta senza fiato.

Ma significa anche dover prendere atto che noi visitatori, attivisti, giornalisti o passanti si va e si viene. Mentre le colonie restano e continuano a crescere, la militarizzazione aumenta, la violenza si nasconde dietro i dettagli.

E l’unica cosa ad essere rimasta immutata nel tempo, mentre il tempo passava, è l’Occupazione e il suo devastante apparato, mentre tensione e rassegnazione si mescolano per le strade, dandogli un colore che le parole non possono descrivere.
Bilal e Jihan li incontro sulla spianata delle Moschee. All’entrata, controllata da un check point, soldati israeliani scherzano con turisti che arrivano da tutto il mondo.
Quasi che Gerusalemme fosse un posto normale, una mèta attrattiva nella quale la vita sembra scorrere placida, nascondendo tra vetrine e bancarelle un conflitto latente, invisibile eppure presente, capace di mostrarsi solo ad uno sguardo più attento.
Basta alzarlo, andando oltre il frenetico scorrere di pellegrini e turisti, per trovare piccole bandiere con la stella di David, segno di un piano superiore conquistato, di una mansarda occupata, di una terrazza strappata ai suoi abitanti persino nel cuore di quello che sulle guide è indicato come “quartiere arabo”. E’ qui che Gerusalemme ricorda Hebron, dove è stato occupato anche il cielo.
Proprio da lì è arrivata stamattina questa giovane coppia di sposi, il cui volto si illumina quando la chiamo con il suo nome arabo, al-Khalil. “Ci sono stata, ho visto tutto”, racconto, mentre tra le loro parole di benvenuto si cela il desiderio, profondo, di raccontare ugualmente. Di descrivere un’Occupazione che a casa loro è entrata sin dentro il cuore della città vecchia, nel suq violato da un check point militare, nella scuola che un tempo ospitava bambini e oggi è abitata da coloni integralisti.

Lì, dove i palestinesi sono costretti a chiudersi in gabbia per proteggersi dai rifiuti che vengono lanciati dai piani superiori, occupati e presidiati dai soldati. Lì, dove per le strade di Tel Rumeida anche fare una passeggiata ha il sapore spettrale della violenza.

Bilal e Jihan visitano Gerusalemme per la prima volta. Mi chiedono indicazioni per raggiungere “il luogo sacro ai cristiani”, quel Santo Sepolcro investito dal caos di turisti e monaci che se ne contendono il controllo. Hanno avuto la fortuna di ottenere un permesso speciale per una visita medica nell’ospedale della città: il solo modo, per i palestinesi dei Territori occupati, di avere accesso ai loro di luoghi santi. Aspettano il loro primo bambino, raccontano, mentre mi offrono un po’ di frutta per combattere il caldo.

Come sempre, la cosa più difficile qui non è domandare, ma trovare le risposte.

“Come viene raccontata la situazione palestinese in Italia? E la gente? Cosa pensa la gente?”, mi chiedono. E trovare il modo di andare oltre un sorriso, a volte, è davvero complicato.
E’ appena calato il sole sulle mura quando salgo su un piccolo bus collettivo che per l’equivalente di un euro mi porterà a Betlemme. O sarebbe più corretto dire al check point che la separa da Gerusalemme, da attraversare a piedi, passando tra gabbie e tornelli, per poter superare il Muro. O per entrarci dentro, come spiegano gli abitanti da questa parte.
Perché in questa terra smembrata e ferita anche la tua posizione è questione di prospettiva, e al check point è il colore del tuo passaporto a stabilire quanto sarà lunga l’attesa.
Libertà, ad alcune latitudini, è un concetto relativo.
E’ dai tetti del campo di Aida, a pochi passi da Betlemme, che la veduta d’insieme dall’alto chiarisce le cose. Mèta ignorata dai turisti che in gran numero si recano in visita alla Basilica della Natività, pur distando da questa solo pochi passi, il campo creato negli anni Cinquanta ospita oggi diverse migliaia di persone, stipate in quello che ad uno sguardo superficiale potrebbe sembrare soltanto un quartiere come un altro.
A segnarne l’ingresso un’enorme chiave, simbolo di un diritto al ritorno che una leadership corrotta, sostenuta dalla Comunità internazionale, ha ormai dimenticato da tempo.
“Gli Accordi di Oslo hanno segnato la fine di ogni rivendicazione in questo senso”, spiega Yaser, che mi accompagna tra un tetto e l’altro per mostrarmi dall’alto ciò che dai vicoli è impossibile scorgere. Sulla grande chiave, guardando bene, si legge la scritta Not for sale: “Il diritto al ritorno non è in vendita.

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Il Muro, l’occupazione, i check point, non sono niente di fronte alla Nakba, la catastrofe che il nostro popolo ha vissuto nel ’48 e di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.

Ma come i politici sono scesi a patti su quella lo faranno anche sul resto. Quella chiave è lì per ricordargli che per noi il diritto al ritorno non è in vendita”, spiega.
Il Muro dall’alto è un mostro di cemento che taglia in due lo stesso lembo di terra, rendendo una parte e l’altra completamente incomunicabili.
“Ci pensi? Quella terra lì è Gerusalemme”, mi dice Yaser indicando oltre la distesa di torrette e cemento. “E’ solo a due passi, eppure non possiamo andarci. Non è assurdo?”, domanda.
E non c’è proprio modo di trovare una risposta, mentre il sole tramonta su Betlemme, intrappolata dentro una gabbia.

SCINTILLE DI INTIFADA E RESISTENZA

E’ a Betlemme che incontro Mahmoud, Rami e gli altri attivisti del Popular Struggle Coordination Committe (PSCC), che da anni guidano le manifestazioni nei villaggi della Cisgiordania assediati dal Muro.
Che ogni venerdì dal 2005 manifestano a Bil’in e al-Massara, a Kufr al-Qaddum e a Nabi Saleh senza che le notizie, da lì, facciano notizia.
Ogni settimana si può sentire di persone intossicate dai gas lacrimogeni. Di acqua chimica sparata persino contro i bambini che scendono per le strade sterrate dei villaggi con le bandiere solo per ricordare che quella terra gli appartiene. Di attivisti feriti, arrestati, malmenati da un esercito che li combatte come nemici da temere, nonostante contro le loro armi frappongano solo slogan, e mani alzate.
“Questa è la nostra terza Intifada ma la leadership palestinese non lo vuole riconoscere, i media non ne parlano, e noi continuiamo a lottare soli, in silenzio, ogni settimana”, mi racconta Rami, che addosso porta ancora i segni dell’ultimo incidente. Un lacrimogeno l’ha colpito in fronte durante lo sgombero di Ein Hijleh, il villaggio nella Valle del Giordano che era stato simbolicamente occupato dagli attivisti palestinesi nel febbraio 2014, in risposta alla continua colonizzazione dell’unico polmone verde di tutta la Palestina.

Quello in cui l’Occupazione mostra il suo lato più feroce, tra serre e terre coltivate da coloni che mettono sotto chiave persino i pozzi d’acqua.

Una lunga cicatrice è rimasta a ricordargli quel momento, e la paura di perdere la vita, la moglie – che si chiama “Palestina”, ci tiene a sottolineare -, i suoi figli. Che sono piccoli, ma ogni settimana manifestano con lui.
“Qui anche il concetto di infanzia è molto relativo”, spiega con un sorriso che ha un sottofondo amaro.
“In questi anni la nostra lotta è stata depotenziata da molti fattori, tra cui senza dubbio il business della Cooperazione internazionale. Non abbiamo bisogno di farina e riso, ma di sostegno politico”, spiega.
“In passato la nostra leadership ha guidato o incitato alla rivolta. E’ stato così per la prima e anche per la seconda Intifada. Ma oggi i nostri politici sembrano solo interessati a mantenere uno status quo che conviene a tutti. Ecco perché continuiamo a sederci a tavoli di negoziati che non serviranno a nulla, mentre le colonie si mangiano la nostra terra e i governi israeliani che si succedono si spostano sempre più a destra. Ecco perché l’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah non avverrà mai: nessuno dei due ha interesse a cambiare le cose. Vogliono il controllo di quel poco che gli resta: e intanto noi difendiamo ciò che resta dei nostri villaggi”, mi spiega, mentre con sguardo triste pensa alle generazioni più giovani.
“Le abbiamo perdute, non siamo più capaci di mobilitarle. Dobbiamo capire come portare avanti questa lotta senza il sostegno della classe dirigente, di cui più nessuno ha fiducia. Dobbiamo capire che siamo in grado di guidare questa rivolta. E’ come quando devi cantare: se sono altri ad imporre il ritmo la melodia sarà stonata, e la gente non riuscirà a cantare insieme a te”.
Resistenza, qui, sono le persone che ogni venerdì da anni scendono in marcia nei villaggi per rivendicare il diritto ad abitare la propria terra. Resistenza è restare a viverci mentre le colonie, tutto intorno, la tua terra se la mangiano.
Come fa Abu Diah, capofamiglia di quel che resta di un piccolo villaggio su cui incombono le case di di Gush Etzion, tra gli insediamenti illegali più ampi della Cisgiordania, che continua ad espandersi nel silenzio impunito delle sue violazioni. Due case, un cortile, un campo di ulivi, qualche albero di vite, un trattore per arare la terra: è questo ciò che rimane per continuare a vivere e mantenere la famiglia.
“Questa è la mia casa, dove altro potrei andare?”, racconta. “E gli ulivi? Chi si prenderebbe cura degli ulivi se me ne andassi?”, mi chiede.
E’ un legame con la terra, questo, che è difficile da spiegare. E che è ancora più difficile comprendere per chi da una terra non è stato separato con la forza.
E’ quello che ricorre nelle poesie, negli scritti, nei romanzi e nelle canzoni. Che ritorna nei gesti semplici della quotidianità, quando anche i più giovani colgono un frutto e te lo porgono, raccontandoti una storia che riporta lontano. A quella catastrofe mai dimenticata, ancora presente nel comune sentire, ferita aperta e tramandata di generazione in generazione, a volte capace di produrre scintille di resistenza.

O di resilienza. Che, in fisica, è la capacità di un corpo di tornare alla sua forma originale dopo essere stato sottoposto ad una pressione esterna.

Come la terra su cui Mazen e suo figlio Bashar hanno costruito Hosh Jasmin, il “nido dei gelsomini”, che scopro per caso in una serata di maggio in cui l’aria è fresca e il cielo incredibilmente pulito. Una luna quasi piena illumina una vallata priva di luci artificiali, in fondo alla quale si intravedono quelle di Gerusalemme. “Noi da qui la possiamo solo guardare. Possiamo solo respirarne l’odore” racconta Lema, mentre mi accompagna a scoprire questo angolo di resilienza.
“Quando mio padre ha deciso di fare ritorno in Palestina dopo anni passati all’estero a scrivere e lottare per il suo popolo, lo ha fatto per non ripetere la storia di mio nonno. Siamo originari di un villaggio vicino a Jaffa: durante la catastrofe del ’48 la mia famiglia fuggì, lasciando alle forze sioniste la casa, la terra, gli alberi. Non voleva che questa storia si ripetesse ancora”, spiega Bashar, che a 26 anni ha abbandonato una carriera da dj musicale in una delle radio più popolari di Ramallah per tornare in campagna e coltivare la terra.
Insieme a tanti volontari ha costruito un ristorante, alcune case fra gli alberi, una piccola fattoria per gli animali, riportando alla vita una valle “famosa per la sua acqua: l’unica cosa che non ci è mai mancata. Per questo la chiamiamo Ghorghol: è il nome del rumore dei ruscelli”.
E’ su questa valle che si affaccia Hosh Jasmin, un luogo oggi diventato centro di aggregazione per tanti giovani, che sulle colline di Beit Jala si rifugiano in cerca di un po’ di quiete, una birra da bere liberamente fumando un harghile. Il cibo che il ristorante offre è biologico, frutta e verdura sono acquistate dai contadini dei villaggi vicini.

A pochi passi il “check point 16”, uno dei principali di questa porzione di Area C, sulla carta sotto controllo palestinese e nella realtà completamente occupata dalle forze israeliane.
“Vedi quelle luci? E’ il villaggio di Battir. Un esempio di resistenza: è stato inserito nella lista dei siti patrimonio dell’Unesco per il suo sistema antico e unico di irrigazione dei terreni, risalente all’epoca romana e ancora oggi in uso”, spiega Bashar. Anche questo piccolo villaggio, insieme a Walaje, Umm Salamuna, Al-Numan, Khader e molti altri resiste ogni giorno soltanto sopravvivendo.
Accanto alla sue terre corre la superstrada n. 60, che collega le colonie israeliane del lato est di Gerusalemme a quelle di Al-Khalil; sotto, un tunnel ha confiscato altra terra, costringendo oltre 20mila palestinesi a passare per il solo check point 16 per potersi muovere.

In molti casi gli abitanti, la cui unica fonte di sussistenza è l’agricoltura, sono stati separati definitivamente dalle proprie coltivazioni: anche per accedervi devono chiedere un permesso agli occupanti.

Qui, in questa valle, come in molte altre zone di questa terra occupata, resistere può voler dire anche solo ostinarsi ad esistere.
“Con la nostra fattoria, così come con la resistenza dei villaggi, vogliamo dare un messaggio al nostro popolo. Dirgli che continuare a vivere qui è ancora possibile. Perché le nostre radici sono qui, e questo davvero niente e nessuno potrà mai togliercelo”, racconta Bashar, mentre il suo sguardo si perde verso le luci di Gerusalemme.
Sono moltissime le persone che si possono incontrare in una manciata di giorni in questa terra magica e bellissima. Dietro ognuna di loro c’è una storia che varrebbe la pena di raccontare.Che meriterebbe di essere ascoltata, per la quale sarebbe necessario trovare le parole.
Eppure, tutto questo mondo scompare tra le pieghe di una cronaca che sembra sempre uguale, scandita dall’oppressione, ritmata dalla violenza. Storie che tanti non hanno voglia di ascoltare, schiacciate sotto il peso di una narrazione dominante, che inverte le carte e fa dell’oppressore l’oppresso.

Perché violenza può essere un check point che si apre a discrezione di un soldato, costruito su una terra che ti appartiene ed è stata occupata; può essere un Muro che da quella terra ti separa, o una strada a cui solo alcuni hanno accesso.

Violenza possono essere le quotidiane umiliazioni, aggressioni, oppressioni, violazioni di diritti e libertà. Oppure, violenza può essere una pietra lanciata da un ragazzo contro un carro armato che sta invadendo il suo villaggio. Basta solo scegliere la definizione più semplice, e non voler guardare oltre.
Nel lungo viaggio che mi separa dal ponte di Allenby e da questo ritorno, attraverso un deserto che conduce fino a Jerico. E mentre invento le tappe di un viaggio turistico mai realizzato da raccontare al soldato, per assicurargli che no, non ho visto la Palestina né conosciuto palestinesi, ripenso alle parole di Mahmoud.
“Sai cosa? La Palestina è sempre una brutta notizia”, mi aveva detto al mio arrivo. “Ma potremmo provare a riscriverla insieme, questa storia”.

*Le foto nell’articolo sono di Cecilia Dalla Negra. La foto di copertina è di Hamza Burnat (tutti i diritti riservati).

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