Le ambizioni di Erdoğan e l’ago della bilancia curdo

di Valeria Talbot*, tratto da ISPI on line

Il calo della popolarità dell’Akp, i problemi economici e la questione curda rischiano di bloccare il sogno presidenzialista del numero uno del Partito giustizia e sviluppo

Le elezioni di giugno si configurano come l’ennesimo referendum nei confronti di Recep Tayyip Erdoğan e del suo partito che da tredici anni dominano la scena politica turca. Dopo tre vittorie consecutive, l’obiettivo del Partito giustizia e sviluppo (Akp) è di ottenere la maggioranza necessaria – 330 seggi su 550 all’Assemblea nazionale – per modificare la Costituzione e introdurre nel paese un sistema presidenziale.

Di fatto, da quando ad agosto 2014 Erdoğan è stato eletto presidente della Repubblica a suffragio universale, in Turchia si è assistito a un progressivo slittamento verso un rafforzamento dei poteri del capo dello stato.

In questi nove mesi, infatti, Erdoğan, a dispetto del ruolo super partes attribuito al presidente dalla carta costituzionale, non ha mancato d’influire sul governo e sulla vita politica del paese, indirizzandone scelte e orientamento e agendo anche durante questa campagna elettorale più come leader di partito che come figura imparziale.
Se l’affermazione come primo partito del paese non appare in dubbio, i sondaggi sembrano tuttavia evidenziare un calo di consensi per l’Akp. Secondo quanto riportato dalla stampa turca, l’attuale partito di governo si attesterebbe intorno al 43%, ben al di sotto del 50% delle legislative del 2011 e del 52% ottenuto da Erdoğan alle presidenziali, ma anche del 45% delle amministrative dello scorso anno, che l’Akp aveva vinto in un clima di forte tensione politica interna in seguito allo scandalo di corruzione che aveva coinvolto il governo.

Quali sono le cause del calo di popolarità? Non vi è dubbio che l’Akp stia scontando una sorta di “effetto stanchezza” nel paese e che la sua “storia di successo” sembri ormai tramontata.

Se l’economia è stata per lungo tempo il pilastro portante di questo successo, negli ultimi anni la Turchia non cresce più ai tassi “cinesi” dello scorso decennio, nonostante la crescita si mantenga positiva e sopra la media europea. Inoltre, l’atteggiamento autoritario di Erdoğan – che nonostante il cambio al vertice del governo e del partito islamista di fatto rimane il leader indiscusso dell’Akp – e la stretta sulla libertà di stampa e di espressione, sulla scia dello scontro con il movimento di Fetullah Gülen, hanno contribuito ad alienare quella parte dell’elettorato più moderato che aveva guardato con favore alle riforme avviate soprattutto nel primo mandato del partito islamista.
Se il deterioramento del processo democratico, la polarizzazione del clima politico interno e il rallentamento dell’economia sono fattori importanti nell’erosione di consenso verso l’Akp, l’elemento che potrebbe risultare determinante è rappresentato dal voto dei curdi. Lo stallo nel processo di pace con il Pkk avviato dal governo nel 2013, l’atteggiamento di Ankara nei confronti dei curdi siriani in occasione dell’assedio di Kobane da parte dello Stato islamico, il persistente gap di sviluppo economico delle regioni dell’Anatolia centro-orientale, dove si riscontrano i tassi di disoccupazione più elevati del paese, hanno alimentato una crescente disaffezione dell’elettorato curdo nei confronti dell’Akp e uno spostamento dei consensi verso il Partito democratico dei popoli (Hdp), la formazione curda guidata da Selahattin Demirtaş.
Alla luce anche del risultato ottenuto dal giovane e carismatico leader curdo alle presidenziali del 2014, sono in molti a sostenere che il superamento della soglia di sbarramento del 10% per accedere all’Assemblea nazionale possa essere un risultato alla portata dell’Hdp alle sue prime elezioni parlamentari. Dal suo successo dipendono le sorti non solo dell’Akp come partito di governo ma anche della sua ambiziosa riforma costituzionale e dell’intero paese, dove in molti guardano con timore al presidenzialismo che, in mancanza di un adeguato sistema di checks and balances, potrebbe avere un impatto significativo sul processo democratico in Turchia. La minoranza curda sembrerebbe dunque profilarsi come l’ago della bilancia della prossima tornata elettorale.

Non è escluso che, in caso di ampia affermazione del partito curdo, alla formazione di Erdoğan possano addirittura mancare i numeri per la costituzione di un esecutivo monocolore.

Se la prospettiva di un ritorno alle coalizioni di governo non attrae l’elettorato turco, memore dell’instabilità e della dilagante corruzione che aveva interessato gli esecutivi prima del 2002, ciò potrebbe però aprire una nuova fase per il paese dopo oltre un decennio di dominio indiscusso dell’Akp. In tale scenario resta tuttavia da vedere non solo quali sarebbero i possibili alleati di governo dell’Akp, ma anche se il partito riuscirà a mantenersi compatto intorno alla leadership carismatica di Erdoğan.

*ISPI Research Fellow e Responsabile del Programma Mediterraneo e Medio Oriente