Recluse: il carcere al Femminile

di Valeria Nicoletti

“Recluse – lo sguardo della differenza femminile sul carcere” è frutto di una ricerca condotta negli istituti penitenziari di Sollicciano, Empoli e Pisa, per elaborare nuove misure preventive contro i suicidi e l’autolesionismo nelle carceri femminili e sfatare luoghi comuni e cliché sulla condizione delle detenute. Intervista con le autrici, Susanna Ronconi e Grazia Zuffa.

“L’appartenenza a un genere è un punto di forza”, esordisce Susanna Ronconi, autrice, insieme a Grazia Zuffa, di “Recluse”, edito da Ediesse in collaborazione con la Società della Ragione, risultato di una ricerca commissionata dalla Regione Toscana e condotta nel 2013 nelle tre carceri di Sollicciano, Empoli e Pisa, attraverso 38 interviste biografiche alle detenute, tre interviste in profondità al personale educativo e due focus group con otto agenti di polizia penitenziaria.

“Non facciamo sociologia del carcere”, chiarisce Ronconi, “la scelta di conservare la soggettività delle intervistate è la conseguenza di una premessa ideologica: l’appartenenza al genere femminile è significativa ed è impossibile non prenderla in considerazione”. La prospettiva delle detenute, in quanto donne, è stata quindi il punto di partenza per analizzare la qualità della detenzione e restituirne un’immagine nitida e veritiera, una scelta di metodo che parte dalle esperienze personali e approfondisce i fattori di stress e gli strumenti di resistenza e resilienza all’interno del carcere.

L’universo penitenziario femminile, che coinvolge poco più del 4% della popolazione carceraria in Italia, resta minoritario e marginale, percepito come un mondo fatto di piccoli numeri e meno pericoloso rispetto a quello maschile.

È proprio dalla detenzione femminile, sottolinea Zuffa, che deriva il modello correzionale, in origine utilizzato nei riformatori, dove la donna era considerata un soggetto a metà tra il minore e il maschio adulto, a responsabilità ridotta, e la detenzione volta “a recuperare l’errante, a correggere il deviante, piuttosto che a punire il colpevole”. Un modello rischioso, che implica l’affidamento totale all’istituzione, la spersonalizzazione e, soprattutto, la sensazione che opportunità come le attività ricreative, il lavoro, la progressione nella libertà e nella responsabilità, siano premi, privilegi per cui supplicare, e non diritti.

Sin dalle prime pagine, Ronconi e Zuffa si schierano contro la visione della detenuta come vittima degli accadimenti, docile, sperduta. “Proseguiamo nel solco dell’empowerment”, continua Ronconi, “sin dai colloqui, che iniziano con una riflessione sul rapporto delle donne con il proprio reato”. Ronconi si è occupata personalmente delle interviste con le detenute: “quasi nessuna si considera vittima degli accadimenti, sono per la maggior parte consapevoli delle proprie scelte e degli sbagli che hanno commesso”. Assumersi la responsabilità del proprio reato è, inoltre, il primo passo per una crescita personale. Che inizia proprio con l’intervista. Una possibilità di raccontarsi. Spesso senza filtri. “Ho avuto l’opportunità di restare da sola in cella, con la detenuta, e il mio registratore, una privacy che ci ha concesso di approfondire molte tematiche”.

Per molte detenute, i colloqui sono stati un’opportunità di rielaborazione del vissuto, di scambio, di confronto, “e non pochi si sono conclusi con una vera e propria seduta di counseling”.

Grazia Zuffa ha curato invece le interviste con il personale penitenziario, educatori e psicologi: “abbiamo seguito il metodo del focus group, cercando di definire come il personale vede le detenute e la condizione di detenzione”, spiega. C’è un grosso scarto, ad esempio, sulla percezione dei meccanismi dell’attesa, di come le detenute possano vivere questa incertezza permanente, questo limbo, i giorni passati ad aspettare un permesso, un responso, un cenno: “se per le agenti si tratta semplicemente di un sintomo del malfunzionamento delle istituzioni, per le detenute l’attesa è il segno di una dipendenza totale, di un assoggettamento coatto, un annullamento delle responsabilità e della propria persona”.

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La copertina del libro edito da Ediesse

Non è infrequente, inoltre, che le detenute rifiutino dei trattamenti preferenziali, siano intolleranti al personale più accondiscendente e preferiscano spesso la durezza e la brutalità a una gentilezza cui poi far seguire una riconoscenza forzata. La stessa Ronconi riporta nel libro i suoi appunti durante il periodo di detenzione: “Voglio tornare nel carcere speciale e militarizzato dove mi è più chiaro chi sono io e chi sono loro”. Le agenti restano sempre “quelle delle chiavi” e ogni relazione si scontra sempre con un inevitabile limite.

“Abbiamo preferito il metodo dei colloqui narrativi, dove si lascia l’opportunità di raccontare, ci si limita a stimolare, magari a guidare, ma poi ogni colloquio prende la propria direzione”, racconta Ronconi, “ durante tre assemblee propedeutiche, abbiamo spiegato chi siamo, io ho anche raccontato il mio vissuto personale da detenuta, una trasparenza che si è rivelata utile in sede di colloquio, che mi ha permesso di raggiungere un certo livello di confidenza”, continua, “abbiamo garantito l’anonimato e, a fine lavoro, siamo tornate in carcere, a restituire il nostro risultato e presentare il testo”.

“Quella della percezione del presente come luogo sicuro, scenario rassicurante, nasconde un’ambiguità di cui le detenute sono coscienti”, continua Ronconi, “la reclusione è di per sé una condizione innaturale, le detenute vivono male questa deresponsabilizzazione, il fatto che ci sia qualcuno che si prenda cura di tutto è come disimparare a vivere, c’è molta paura dell’esterno, del futuro, una sensazione di inadeguatezza costante e sono in poche a volersi cullare nella dimensione ovattata del carcere”. Di contro, il futuro, rispetto al tempo vuoto della detenzione, al tempo insensato della reclusione, è una specie di nebbia. “Quando il tempo è vuoto, il futuro è una minaccia”. Quindi ci si aggrappa alle abitudini, ci si dà degli obiettivi, che per quanto ideali sono comunque un motore per andare avanti. “Si cerca di darsi un tempo proprio”, una disciplina personale, c’è chi torna alla scuola dell’obbligo, nonostante abbia già un diploma, chi investe il tempo nella sfera relazionale.

“Cerco di non avere un tempo vuoto”, racconta una detenuta di Sollicciano, “faccio e penso ad un sacco di cose e poi non mi resta tutto questo tempo per pensare alle mie: non so se è un bene o un male”.

“Far uscire il sangue amaro”, questo il titolo del capitolo dedicato all’autolesionismo, che registra anche le recenti iniziative istituzionali, come il progetto triennale di modello sperimentale di prevenzione dei tentativi di suicidio promosso dall’Agenzia Regionale di Sanità toscana, tramite un accordo di collaborazione con il Ministero della Sanità, che coinvolge anche Veneto, Liguria, Umbria, Lazio e Campania. “L’attenzione alle componenti ambientali è recente”, si legge nel libro, “è ancora radicata la tendenza riduzionista a leggere la salute nella sua sola, o preponderante, componente individuale, è presente la tendenza a psichiatrizzare il fenomeno del suicidio in carcere, attribuendolo a problematiche individuali, senza considerare adeguatamente il rischio ambientale”, ovvero la sofferenza oggettiva della condizione detentiva.

Il carcere era ed è tuttora un luogo che crea e importa il rischio suicidio, perché “la persona è privata di risorse basilari, fra cui, fondamentale, la dimensione privata, dell’individualità”. La stessa radice hanno i fenomeni di autolesionismo che, nella sfera femminile, sono adoperati come tattica per richiamare l’attenzione, una risposta più tempestiva alle famigerate “domandine e, soprattutto, per assimilare la durezza della prigionia, il bisogno puro di sentire dolore, di farsi male per stare meglio: “sì, piango, però non mi sfogo abbastanza”, racconta una detenuta di Pisa. Fenomeni che purtroppo sono spesso scambiati per patologie personali e non come sintomi di un oggettivo male di vivere causato dal carcere.

Ognuno inventa le proprie strategie di resilienza e resistenza, scontrandosi con quella che Ronconi chiama una “crisi della cultura trattamentale, che ha portato all’estremizzazione del concetto di premialità, all’eccesso di interpretazione della parola rieducazione, troppo vicina alla redenzione, insistendo nel lavorare sull’anima dei detenuti, con conseguenze spesso pericolose”.

Ronconi e Zuffa preferiscono parlare di risocializzazione, “una parola che ha una sfumatura più laica ed evidenzia la contraddizione radicale tra la reclusione e il tentativo di riabilitare la socialità dei detenuti”. Il movimento abolizionista rientra in un tentativo di opporsi a questa contraddizione: “il carcere è uno strumento superato, fuori tempo e le alternative esistenti sono ancora troppo carcere-centriche”, continua, “la pena si può scontare pagando con monete diverse, se vogliamo conservare questo linguaggio della retribuzione, in fondo, anche nella nostra ricerca, circa il 70% delle detenute era in carcere con pene inferiori ai tre anni e con una pericolosità sociale pari a zero, allora perché restare dietro le sbarre?”.

“Il sistema trattamentale”, spiega Zuffa, “di per sé innesca un meccanismo continuamente sottoposto al giudizio, accentua la discrezionalità, la messa alla prova”. Non è un caso, infatti, che queste dinamiche siano percepite in maniera più acuta soprattutto dalle donne: “si tratta di meccanismi particolarmente rischiosi perché è facile ricadere nello stereotipo, indirizzare le donne nei binari dei ruoli assegnati dalla femminilità tradizionale”.

“Lavoriamo nell’ottica di avere meno carcere, non carceri migliori”, continua Ronconi, “ma più che abolizioniste preferiamo definirci riformiste disilluse”. Anche Zuffa è della stessa opinione: “il lavoro in carcere è un modo per concentrarsi su di sé”, spiega, “sono importanti soprattutto quelle attività che non implicano necessariamente un confronto con le psicologhe e gli educatori”. Ma a volte non basta: “le vere opportunità sono fuori e un carcere che impedisce l’accesso naturale al mondo esterno è controproducente”, continua, “preferiamo un carcere dove più che dimostrare di meritare tali benefici, vi si possa accedere naturalmente”.

Susanna Ronconi ha trascorso circa sette mesi nel carcere di Sollicciano, durante i processi che l’hanno coinvolta come imputata, e poi vi è ritornata per un periodo di semilibertà durato più di un anno. “Non nascondo che c’è molto di me nei colloqui”, racconta, “è stato un lavoro che ha rimesso in discussione tutta una parte del mio vissuto personale, è forte la tendenza a fare della ricerca anche un’attività autoriflessiva, ma ho cercato di tenere a bada la mia emotività, raccogliendola in un mio diario esperienziale parallelo, dove ho registrato le mie reazioni”.

“Dal carcere duro non ci si libera, si portano dei segni, non sempre negativi”, continua, “l’isolamento, il carcere speciale finisce anche con il tirare fuori delle potenzialità sconosciute, o lo si relega nell’oblio, perché anche dimenticare è e deve restare un diritto, oppure ci si relaziona dall’esterno, con un’esigenza di riflessione, in maniera attiva, mantenendo un filo di solidarietà, credo che la mia attività in carcere derivi anche da questa necessità”.

Mettendo da parte la disillusione e l’amarezza, le voci delle recluse di Sollicciano, Empoli e Pisa contribuiscono alla restituzione di un’immagine reale della detenzione femminile in Italia, un tentativo di dissipare stereotipi e retoriche, di fare un passo oltre la cortina di pregiudizi che circonda gli istituti penitenziari, a cominciare dalle stesse detenute, riconoscere e riconoscersi oltre il reato, oltre le sbarre: “Non ti far mai mettere il blindo nel cervello, mi hanno detto una volta. E questa frase me la sono ricordata tutta la vita”.

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