Yalla Shebab

Dalla Palestina a Lecce, visioni oltre il muro

“Com’e’ la Palestina?”
Domanda difficile, semplice, a trabocchetto o talmente aperta che non sai da dove iniziare. E com’e’ l’Italia, la Francia, il Marocco o Cipro? La trappola “spaghetti” o “couscous” e’ sempre li’, a salvarti da conversazioni nelle quali non vorresti proprio mettere nulla in discussione. Bellissima, un posto particolare, affascinante, complesso, e via con il prossimo argomento.

Non sai da dove iniziare perche’ ormai pensi che sia un posto, riconosciuto o no, che non ha piu’ bisogno di presentazioni, sul quale e’ stato scritto tanto, e tanto si continuera’ a scrivere. Che tanto la storia ormai la sappiamo tutti, e che molto spesso reduce le posizioni ad essere di qua o di la’, bianche o nere. A favore o contro. Come se fosse un referendum. E se sei pro o contro, allora avrai la tua serie di stereotipi e copioni da recitare. E quando ti confronterai, non farai altro che consolidare la tua visione o cercare di far cambiare idea agli altri.

Ne abbiamo gia’ scritto, qui ci sono mille sfumature di grigio, anzi di colori, perche’ la “Palestina”, che e’ una comunita’ di persone prima di tutto, ne ha molti di colori. Ai classici colori della bandiera, il bianco della liberta’, il rosso del sangue dei martiri, il verde della terra e il nero del lutto, si aggiungono i colori di tutte le Rana, Mohammed, Basima, Raed e cosi’ via, che compongono questo grande patchwork geografico, diviso da frontiere fisiche e culturali, e internamente diversificato, che compone il mosaico palestinese. D’altronde, come dice Teju Cole, la ricchezza dell’umanita’ sta nelle sue differenze.

E da dove cominci a raccontarla la Palestina? Dalle date chiave degli eventi storici che ne hanno segnato irreparabilmente il corso? Dai libri di storia (e quali, quelli dei nuovi storiografi israeliani, che riconoscono la Nakba, ovvero la “catástrofe”, o quelli negazionisti?), o dai fumetti? Guy Deslile e il suo sguardo disincantato o Joe Sacco e i suoi ricchissimi fumetti politici? E quando arrivi in Palestina, da dove inizi il tuo giro? Dalla citta’ vecchia di Gerusalemme, o da Hebron? Dal muro di betlemme o dai cancelli agricoli intorno a Qalqilya che aprono solo due volte (per qualche ora) l’anno?

Se c’e’ una parola che spesso colleghiamo ai palestinesi, questa e’ “Somoud”, la resilienza, la capacita’ di riprendersi dagli shock e andare avanti. Quella che noi popolo di umanitari cerchiamo di “restore” dopo (e durante) ogni conflitto, ogni dramma, ogni alluvione, senza capire che forse e’ parte del nostro DNA perche’, come mi dice S, “che altra opzione ci e’ rimasta?”.

“Tutti pensano che i palestinesi siano un popolo miracoloso, che siamo degli eroi, che abbiamo delle capacita’ straordinarie”, continua S., “ma in realta’, noi non abbiamo scelta. Possiamo sederci qui, in attesa della prossima guerra, o continuare a vivere”. Basta arrivare nel mercato di Damascus Gate, nella confusione di Gaza City, nel traffico di Ramallah o anche solo negli accampamenti beduini, dove la vita scorre placida “nonostante tutto” (leggi: soldati, espropriazioni e demolizioni, sottrazione delle risorse idriche e agricole), per accorgersi che i palestinesi hanno semplicemente scelto di vivere. Quelli che possono permetterselo.

E allora, se vogliamo parlare di Palestina, non sarebbe forse piu’ onesto, rispettoso e vero cominciare dalle storie, da queste storie?
E’ questa la Palestina che esporterei, nel vero significato di portare fuori. Perche’, come dice Mariam Barghouti, giovane attivista palestinese, “i Palestinesi non hanno bisogno di qualcuno che parli per loro, perche’ la voce ce l’abbiamo. Abbiamo solo bisogno di un altoparlante.”
E allora, se volessimo fare un giro di ricognizione dei vari altoparlanti a disposizione, uno per tutti e’, in questi giorni, lo Yalla Shebab Festival.

Yalla shabab, andiamo ragazzi, lo slogan piu’ popolare che esista, che non ha colori politici ma sicuramente un significato universale, quello di prendere l’iniziativa e fare, insieme.
Lo Yalla Shabab Festival quest’anno e’ un altoparlante della Palestina, anzi delle molte Palestine, di tutto rispetto. Certo, tutto e’ tragicamente normale e normalmente tragico quaggiu’, per cui non possiamo non riconoscerci nei dolori del cuore di Omar, o delle protagoniste del libro di Sawsan Abulhawa. Non possiamo non farci trasportare dalla voce di Nabil Bey. Non possiamo non capire l’importanza di gesti fondamentali, come la ricerca dell’intimita’ nonostante i bombardamenti intorno, che ci racconta Condom Lead. Ma non possiamo nemmeno rimanere indifferenti di fronte all’assurdita’ che putroppo e’ quotidiana, da Rafah a Jenin.

“Visioni oltre il Muro”, recita la locandina del festival. Visioni oltre una certa narrativa manichea e purtroppo sempre piu’ politicizzata, oltre un muro fisico e culturale, non quello che divide le comunita’ palestinesi tra di loro, ma quello che divide “noi” da “loro”, che tende ad omogeinizzare e standardizzre pensieri e comportamenti, e a ridurre l’informazione a un mero bollettino di guerra, come i security updates che ricevo tutti i giorni sul mio cellulare. Oltre il muro, e tutti i muri per tornare al valore delle storie individuali, delle mille realta’, cosi’ diverse tra loro, e cosi’ umanamente vere, disperate e confortanti..
Dalla Palestina a Lecce, che quasi ci si potrebbe arrivare a nuoto, ognuna lascia il segno. Yalla, shebab!