Belgrado, mia nonna e l’umana storia di Uglieša

Rivivere la guerra che non c’è più, dai racconti di chi l’ha vissuta

di Nicolò Cesa

Ogni volta che approdo in una città nuova, mentre viaggio, cerco di pormi delle domande. La prima su tutte è “che cosa ci faccio qui, in questo preciso posto, in questo preciso momento?”. Certe volte rispondere è piuttosto semplice. Lo è stato, ad esempio, quando mi sono ritrovato di fronte alla maestosa residenza dello zar bielorusso Lukashenko, nel centro di Minsk (e a pochi passi dal carcere in cui sono rinchiusi alcuni dissidenti politici) e sono stato redarguito per essermi fermato qualche secondo di troppo ad osservarne l’architettura; o quando ho passato il mio ventiquattresimo compleanno in un commissariato di Tallin per denunciare la rottura del vetro ed il furto di oggetti, nella nostra macchina, avvenuto durante la notte; o quando la mattina del mio venticinquesimo compleanno (sì, generalmente i primi di settembre tendo a non stare a casa) mi sono svegliato ad Akureyri, estremo nord islandese, sotto una nevicata epica, che ha avuto la forza di salvarmi dalla realtà.

Queste volte, rispondere alla domanda cosa ci faccio qui?, è stato piuttosto semplice. La risposta, seppur assurda in certi casi, era lì, attorno a me. Altre volte è stato più difficile. Penso ad esempio al viaggio del 2013, direzione Belgrado. Avevo degli amici lì, ed il mio obiettivo – dopo che l’estate precedente l’avevo passata a suonare in giro per le piazze, le strade, ed i musei d’Europa – era quello di suonare nella capitale serba. Avevo raccontato a mia nonna di questa mia idea e lei subito aveva associato la parola Belgrado a quella di guerra: «Non andare dove c’è la guerra, Nicolò!».

Avevo cercato di spiegarle che la guerra non c’era più a Belgrado e che mentre parlavamo eravamo nel 2013 e non nel 1991 o nel 1999. Ma si sa, per i nonni 15-20 anni sono una questione di minuti (che poi era stato difficile spiegare anche ai miei amici, che di anni non ne hanno di certo 90 e non soffrono di demenza senile, che a Belgrado non c’era la guerra; ma loro iniziavano a raccontarmi di quando a Viserba, in vacanza al mare coi genitori, vedevano i caccia sorvolare le coste, disturbando i loro pranzi sotto il sole. Ma questo, forse, è un altro discorso).

Ad ogni modo eravamo finiti a parlare di guerra. Di quello che aveva rappresentato per lei il conflitto, che lo aveva vissuto in prima persona. Nel 1944 aveva messo al mondo mio padre in un rifugio di Viale Certosa, sotto il suono assordante delle “bombe amiche”. La guerra le aveva portato via nell’ordine: suo padre, un fratello e uno zio, uccisi dal bombardamento della Dalmine, la fabbrica in cui lavoravano. Per lei la guerra non era un semplice racconto. Era una parte della sua biografia. Io ascoltavo, ma non potevo davvero capire. Il mondo di cui mi parlava era un mondo in bianco e nero, troppo lontano dal mio. Certo lo avevo studiato, ne avevo letto, guardato film. Ma anche se mi sforzavo, cercando di fare mia quella paura, io quelle immagini, quegli odori e quei suoni, non li avevo mai sentiti. Quella paura non l’avevo mai provata. Quindi ascoltavo in religioso silenzio, cercando di rispondere alle sue domande – domande di una donna di 90 anni – che ora mi chiedeva, mentre osservava dalla finestra della sua casa a Crescenzago: «Nicolò, guarda quanto è alto quel palazzo che stanno costruendo! Ma come faranno quelli dell’ultimo piano, quando bombardano?». Maledetta demenza, pensavo.

Quelle parole me le sono portate dentro fino a Belgrado, città che racconta di un’infame guerra all’interno dei confini di quell’Europa di cui si dice – con un po’ di amnesia, evidentemente – che da 70 anni regnerebbe la pace assoluta. E non è una questione di libri di storia, di alleanze, di strategie militari, di global politics e di istituzioni sovranazionali. Di immagini asettiche ed in bianco e nero. Quella di cui vi parlo è una guerra che ho vissuto. L’ho vissuta quando Uglieša, un mio caro amico, mi racconta di cosa sono stati per lui i bombardamenti NATO del 1999, quando entrambi eravamo adolescenti, ma io abitavo nella parte del mondo tranquilla dove era possibile ingozzarsi liberamente di Nutella.

Non gli ho chiesto di raccontarmelo, perché certe domande non mi sognerei nemmeno di farle. Non ne ho il diritto. Ma tra un bicchiere di rakija e l’altro, nella stanza della sua casa a Kumodraž – quartiere a est di Belgrado – è lui ad iniziare il discorso. Mi racconta che ai tempi viveva a Novi Beograd, una zona residenziale della capitale e che il periodo dei bombardamenti era stato uno dei periodi più belli della sua vita: «C’era un’umanità ed una solidarietà incredibile». Mi racconta che per lui ed i suoi amici era stato quasi un gioco.

La città era ferma ed i genitori portavano sulle spalle il peso del racconto, della verità; di indicare ai figli le coordinate di quelle luci improvvise ed il senso di quei suoni. Così gli avevano raccontato che si stava svolgendo una grande festa collettiva, per risparmiare loro il peso della verità.

Ed in effetti dalla sua stanza di quell’appartamento al dodicesimo piano, ora occupato da vicini chiassosi, tavole imbandite di proja, sarma e paprika u pavlaci e dalla voce della radio che spazia da b92 ad un po’ di turbofolk, quello che vedeva era molto simile ad un improvviso capodanno. Ad ogni modo Uglieša non ci credeva. Aveva già capito tutto (mentre io mangiavo la Nutella e strimpellavo la chitarra…), ma gli piaceva restare al gioco. Quel gioco che durava tutte le sere in casa sua, mentre i genitori effettivamente festeggiavano bevendo rakija per ingannare la realtà e per avere la forza di essere romanzieri romantici della propria esistenza. E non aveva mai avuto il coraggio di buttare un’atomica sulle nobili intenzioni dei racconti di sua madre, dicendole che aveva già capito tutto. Quello sarebbe stato il missile peggiore. Uglieša ed i suoi amici stavano al gioco e, allo stesso tempo, rendevano possibile quel gioco. Così la guerra diventava un pretesto, per diventare sceneggiatori ed artisti della propria vita.

In quella casa a pochi metri dalle nuvole, ogni sera era un’opera d’arte collettiva, fatta di improvvisazioni, di flessibili copioni, di premi Oscar agli effetti speciali e al montaggio sonoro. Un’orchestra di strumenti scordati crescenti, ma in modo coerente, che riesce ad armonizzare su tonalità impossibili.
Ora la guerra nella mia mente diveniva a colori; iniziavo a sentirla sulla mia pelle e persino i racconti di mia nonna prendevano vita. La stavo vivendo.

Non c’era motivo di pormi la domanda cosa ci faccio qui?, adesso. Ero lì per provare sulla mia pelle la bellezza e la forza di un racconto. La potenza della finzione, della messa in scena e delle migliori creazioni umane. Di quell’arte, che può addirittura essere più forte della realtà. Più forte persino della creazione più indegna e più distruttiva degli esseri umani, quale è la guerra.

Forse questo voleva raccontarmi mia nonna. Ma l’ho capito solo a Belgrado.