Gastromania: la filosofia in cucina

Intervista a Francesca Rigotti

di Chiara Catenazzi

Francesca Rigotti, filosofa e saggista, è nata a Milano ma trascorre la sua vita tra Germania, Italia e Svizzera. Attualmente insegna all’Università della Svizzera italiana di Lugano, dopo essere stata docente a Göttingen, Princeton e Zurigo.

La sua ricerca, in particolare dopo aver pubblicato La filosofia in cucina nel 1999, è caratterizzata da un’indagine volta alla connessione di due mondi apparentemente distanti: il mondo delle “piccole cose”, del vissuto quotidiano ed il mondo del pensiero filosofico.

Sarà ospite del quarto appuntamento organizzato dalla sezione Off del Festival Letteraltura: durante l’aperitivo filosofico che si terrà mercoledì 23 giugno alle ore 18.30, presso la Locanda a Sud di Ceredo di Ghiffa (VB), Francesca Rigotti presenterà il suo ultimo libro, Manifesto del cibo liscio. Per una nuova filosofia in cucina, conversando con Marco Politi, scrittore saggista, condirettore di Doppiozero.

Francesca, partendo dal titolo del tuo ultimo libro, cos’è il cibo liscio? E poi, visto il tema di quest’anno del festival di Letteraltura, si può considerare in qualche modo anche il cibo liscio come una sorta di ritorno? Penso per esempio a quando descrivi come segnali positivi «farsi l’orticello, coltivare pomodori e zucchine sul terrazzo, allestire un micro jardin des herbes in una cassettina con la terra in cucina» pur definendoli «attività forse un po’ patetiche, ma di grande soddisfazione»

Il cibo liscio è un concetto filosofico. Deriva dalla partizione fatta da Gilles Deleuze e Félix Guattari nel 1980 in un famoso testo che si chiama Mille Plateaux, nel quale il territorio è distribuito nello spazio del potere e nello spazio del non potere, lo spazio della libertà e quello della costrizione, sotto due aggettivi di lisse e strié. Mi sono chiesta se il modello che nasceva dall’unione di questi due principi potesse essere applicato anche all’alimentazione, se dunque da questo si potesse elaborare un modello alimentare. Da qui l’idea di cibo liscio come cibo libero, che è forse la connotazione più importante, che però non può vivere indipendentemente dallo striato. Questo è un principio che io cerco di ripetere continuamente quando parlo dell’evoluzione della rivoluzione del cibo liscio, come il DNA; l’idea è quella di andare nella direzione del liscio, ma sempre passando per lo striato, quindi per il potere in quanto organizzazione, struttura. In questo senso il cibo liscio non è un ritorno e però egualmente ritorna ogni volta che si avvolge su se stesso, è una sorta di reprise in senso musicale che però poi va avanti, quindi non è nemmeno una routine che rimane sempre avvoltolata su se stessa. Ritorna e poi va avanti. Io quindi non mi sento una dietrologa, per esempio sono una fanatica assoluta della tecnologia elettronica, di altre meno.

Sempre rispetto al titolo, come mai hai deciso di scrivere un manifesto? In questo, chi parla a chi? Ho notato che utilizzi spesso la prima persona plurale, chi c’è dietro a questo “noi”? Chi sono poi gli interlocutori ai quali ti rivolgi?

Detto tra di noi, io tenderei a usare la prima persona singolare, “io”, ma questo non è apprezzato nel contesto scientifico che chiede di utilizzare formule impersonali. Quindi per ragioni editoriali utilizzo una via di mezzo, una forma più partecipativa, “noi”. Certo c’è il rischio che venga interpretato secondo un vago sapore collettivista, buonista, comprensivo. Non mi è mai piaciuto veramente il “noi”, soprattutto se penso alla mia esperienza in Germania precedente alla caduta del muro. I cittadini della DDR, che parlavano sempre in prima persona plurale, identificandosi con la Repubblica Democratica Tedesca, mi facevano un effetto impressionante. Io di mio preferirei usare l’”io”, almeno sarebbe chiaro che parlo per me e per nessun altro.
Rispetto al pubblico al quale si indirizza il Manifesto del cibo liscio ho in mente per prima cosa i miei figli, che sono quattro, quindi già una piccola comunità. A tutti ho insegnato a farsi da mangiare; in realtà erano loro che venivano a imparare, meno la figlia femmina, la quale faceva molto sport, quindi arrivava alla sera, troppo tardi per assistere al processo e spesso troppo stanca per mangiare.
Il manifesto è dedicato a coloro che si fanno da mangiare da soli, persone normali, infatti dico che questa non è una dieta, anzi è una non-dieta, una dieta nel pensiero.

Parlando della struttura del Manifesto del cibo liscio, ci sono diversi capitoli che sono dedicati ad un ricordo legato al tuo vissuto personale ed al cibo, che seguono capitoli di riflessione. Si può dire che hai fatto uso dell’esperienza sensibile nel processo conoscitivo? Che ruolo ha l’esperienza nella stesura dei tuoi libri?

Questa è stata la mia prima incursione nel mondo della scrittura non saggistica, perché questi sono più racconti che saggi. Il tuffo nella narrativa è sponsorizzato anche da Marco Belpoliti che mi sollecita sempre a scrivere su Doppiozero dei piccoli racconti, quindi è una cosa molto nuova per me, che considero la saggistica e la narrativa due mondi diversi.
Poi l’idea era quella di sollecitare il rapporto tra cibo e memoria senza dover alludere per forza alla madeleine. Credo di aver parlato di questo accostamento in un altro modo, cioè non è il ricordo del cibo che mi fa ritornare all’episodio, ma è l’episodio stesso che è lì, fissato dal cibo. L’opposto che in Proust.


Proprio iniziando il Primo racconto di cibo e memoria, scrivi «Il cibo è “memorabile”, ha a che fare con la memoria. È un’esperienza sensoriale da rammentare, meritevole di essere ricordata. Il cibo è facile da ricordare ma il cibo è anche ciò che sollecita il ricordo e lo catalizza; è ciò che nella memoria rimane perché stimola la memoria stessa».
Qual è però personalmente il tuo rapporto con il cibo? Cosa, come e con chi ti piace cucinare?

Sono una persona di gagliardo appetito e lo sono sempre stata; ho avuto un’educazione molto rigida, io e i miei fratelli eravamo inizialmente costretti a finire quello che avevamo nel piatto. Poi abbiamo tranquillamente passato questa fase, ne siamo usciti vivi e onnivori. Abbiamo fatto poi la stessa cosa con i nostri figli.
Io cucino normalmente, adesso meno perché i figli sono grandi, ma per anni quando siamo stati in sei ho sempre cucinato pranzo e cena, merende e colazione. Senza chiedere a ognuno che cosa volesse (e in realtà sapendolo benissimo): mi sembra patologico e pedagogicamente sbagliato chiedere regolarmente ai bambini che cosa vogliano mangiare; l’imporre questa scelta logorante e continua è un sopruso nei loro confronti, significa farli diventare dei piccoli mostri che dettano legge. C’è un eccesso di scelta in generale che provoca stress alle persone.

Nella tua vita sei mamma e donna impegnata sul fronte professionale, hai inoltre vissuto in diversi paesi. Anche per la tua esperienza personale, qual è il rapporto del cibo liscio con la diversità culturale?

Ognuno ha il suo cibo liscio. Non tutte le commistioni sono fortunate, magari sono possibili ma non sono lecite. Per esempio i Tedeschi cucinano delle misture tremende perché non hanno l’idea platonica. Secondo me la ricetta è come un’idea platonica, se tu sai cos’è un cavallo, riconosci la cavallinità e riconosci l’idea del cavallo stessa nel mondo delle idee. Quindi le ricette, nel senso di composizioni di cibo, hanno dei principi chiari e distinti (questo invece è Cartesio) ai quali attenersi (anche se non fermamente). Non è che tutto quello che hai nel frigorifero si può buttare nel sugo, mischiando qualsiasi cosa, come fanno molti Tedeschi.
Lo stesso vale per il cibo etnico, che è una cosa buonissima, però attenzione: se lo vedessi fare lo ripeterei, ma seguire una ricetta senza aver idea di come si possa realizzare per me è un problema. Ci sono delle ricette replicabili perché sappiamo cosa c’è dentro, altre che non lo sono perché non ne conosciamo il gusto, dunque i possibili abbinamenti.

Sempre continuando su questo tema, tu scrivi che il cibo liscio è «variato, dal momento che per noi variato è sinonimo non di inferno e di peccato ma di allegria, di dinamismo e di curiosità di spirito, anche di tolleranza per il diverso, apertura al nuovo e all’imprevisto, che siano cibo, amici o relazioni. Oggi ci è anzi sospetto chi propone ideali di purezza e di identità: non si invocano più né razza né sangue ma l’idea razzista non è morta, e chi la ripropone scivola in vaneggiamenti di purificazione ed eliminazione di “irregolarità”». C’è in questo un messaggio che il Manifesto del cibo liscio vuole comunicare in questi tempi di crescente paura del “diverso”?

Mentre facevo l’esame di maturità agli studenti liceali svizzeri, la settimana scorsa, proponevamo, tra le varie domande, una relativa al modello dell’universo copernicano e al modello tolemaico-aristotelico. I ragazzi ripetevano continuamente che nell’universo tolemaico-aristotelico il mondo sublunare è corruttibile, il mondo sovralunare è incorruttibile. Io intanto pensavo che questa idea medievale, che va avanti fino alla rivoluzione astronomica, è proprio quella che immagina il mondo sovralunare, celeste, come un mondo perfetto, uniforme, omogeneo. E’ un mondo senza macchie, tanto è vero che quando Galileo vide le macchie solari venne condannato perché diceva che il sole non è perfetto. Venne messa in crisi l’idea della perfezione come purezza, omogeneità. Il 1500 è nello stesso tempo il momento in cui viene scoperta l’America e l’epoca in cui entra profondamente in scena la diversità, l’altro. Allora mi dico, oggi viviamo in un mondo in cui alcuni politici invocano la purezza quasi aristotelica di una cosa che per essere buona dev’essere perfetta e omogenea.
Quando parlo di striato e liscio mi rifaccio a Pastoreau che spiega come il rigato sia stato per secoli il marchio dell’infamia: la riga era riservata a coloro che svolgevano una professione umile o ai carcerati. Ma noi avevamo superato meravigliosamente tutto questo con la Rivoluzione Francese, con i diritti dell’uomo, con l’integrazione, con il rifiuto della dottrina delle razze. Perché adesso stiamo tornando a improbabili ideali di purezza? Perché la purezza dev’essere considerata un valore? E’ come se qualcosa si fosse inceppato. Questo ha delle implicazioni profonde, è un grande regresso.

In questo senso il cibo liscio può avere un ruolo nel momento dell’incontro con “l’altro”?

Ce l’ha e lo ha sempre avuto da quando abbiamo scoperto il cibo etnico. Però non si capisce perché con il cibo questo va bene, a tutti piace, c’è un entusiasmo generale per questi sapori, ma non va bene col resto.
Nella nostra società avviene una sorta di compensazione tra fattori quali cibo, abbigliamento e musica e la predica dell’ideale di purezza su altri fronti. Dall’altra parte c’è un atteggiamento ambivalente, che è riscontrabile in tantissimi comportamenti umani. Si afferma qualcosa ma anche il suo contrario. Siamo sempre trascinati da forze opposte, vogliamo spesso la compresenza dell’una e dell’altra cosa, non siamo univoci. Ma perché il cibo etnico sì e la tolleranza no?

Nel Manifesto del cibo liscio utilizzi quello che Marco Dallari ha definito come “pensiero impertinente”, scegli uno stile filosofico «multidimensionale, non lineare, complesso; uno stile che esalta il pensare in parallelo, “per immagini, primitivo, analogico, metaforico, che si nutre di associazioni, di analogie, di pensieri laterali, di metafore, di girotondi ermeneutici e impertinenti”». Come sei arrivata a questa connessione tra mondo del quotidiano ed aspetti più profondi dell’esistenza?

Oggi questo tipo di ragionamento è un atteggiamento filosofico spesso condannato, perché c’è un’avanzata della filosofia analitica e della sua proposta di scientizzazione. Si considera valido solo il ragionamento inferenziale, sperimentale, o deduttivo-argomentativo. Io ed altri sosteniamo che sia riduttivo che tutta la ricerca si riduca a questa metodologia, dal momento che la filosofia ha varie tradizioni. E tra queste l’ermeneutica, l’interpretazione, che ha un’importanza fondamentale. Per esempio sarebbe bello oggi riuscire a realizzare un’ermeneutica del Corano, com’è stata fatta quella della Bibbia.
Il ragionamento in parallelo permette un pensiero libero, creativo, associativo, non necessariamente deduttivo, senza voler negare spazio al resto. La grande differenza tra la filosofia analitica e quella così detta “continentale” è che la prima è imperialista. Ma la filosofia non può essere universale allo stesso modo della scienza.
Scrivere un libro come il Manifesto del cibo liscio provoca sempre un certa perplessità nel mondo dei filosofi; ci vuole un po’ di coraggio, il rischio di non essere considerati seri c’è sempre. La mia svolta è stata nel 1999 con La filosofia in cucina, mentre i libri che ho scritto precedentemente sono abbastanza accademici. Ho proprio pensato a cosa potessi mettere della mia esperienza: la mia competenza è quella di studiare, poi so cucinare, lo faccio. Ho quindi cercato di capire se si potessero mettere insieme i due mondi, ci ho provato e sono andata avanti con questo filone.

L’evento di martedì durante il quale presenterai il tuo libro fa parte degli incontri organizzati dalla sezione Off di Letteraltura, che sono rivolti in particolar modo ai giovani.
Nel Manifesto del cibo liscio anche i giovani hanno uno spazio, per esempio quando scrivi del sistema di Slow Food «Uno dei deficit più vistosi di Slow Food è poi la mancanza di giovani» e ancora «Sembra che con la vigente strategia il movimento di Slow Food non riesca ad attirare dietro i suoi fornelli le giovani generazioni, politicamente esigenti». Qual è il rapporto tra cibo liscio e politicizzazione? Cosa diresti a questi giovani politicamente esigenti?

Direi che i giovani hanno ragione, è come la storia delle donne in politica. Si dice che ci sono troppe poche donne in politica, i politici rispondono che sono le donne che non vogliono prendervi parte. Certo, fanno bene le donne che quel tipo di politica non la vogliono, non vogliono quegli orari, hanno altri compiti ed esigenze che gli uomini non hanno, quindi è la politica che ha da cambiare il suo stile se vuole le donne. Deve farlo.
La stessa cosa riguarda i giovani, non sono loro che sono disinteressati. Anche movimenti che abbracciano la causa dell’uso corretto del cibo, come Slow Food, devono cambiare qualcosa della propria organizzazione se vogliono attirare i giovani. Serve ricambio generazionale, inoltre bisogna pensare al grande richiamo che ha per i giovani il cibo striato.