Leggendo “Il Califfato del terrore” di Maurizio Molinari

Questo è davvero un libro che «tutti dovremmo leggere» come suggerisce Roberto Saviano nella fascetta pubblicitaria che avvolge il libro?

di Nicola Perugini, tratto da il lavoro culturale

La scorsa settimana ho comprato Il Califfato del terrore. Perché lo Stato Islamico minaccia l’Occidente (Rizzoli, 2015) di Maurizio Molinari e ho notato alcune strane cose. Apro a pagina 36 e 37, e trovo uno “scalino” nello stile di scrittura. Mi è sembrato di sentire abbastanza chiaramente la traduzione letterale da un’altra lingua. Molinari introduce la sezione “La rinascita del Califfato”, in cui spiega ai lettori religione e cultura islamica, con le seguenti parole:

«L’Islam afferma di essere una religione universale, in grado di coprire ogni aspetto della vita quotidiana, e dunque ha come obiettivo ultimo uno Stato Islamico. Questa idea politica è parte integrante del concetto di ‘umma’, secondo il quale tutti i musulmani, ovunque risiedano, sono legati da una fede che trascende i confini geografici, politici, nazionali. Tale legame è la fedeltà ad Allah e al profeta Maometto. Poiché i musulmani credono che Allah abbia rivelato tutte le leggi concernenti questioni religiose e laiche attraverso il Profeta, l’intera umma è governata dalla sharia, la legge divina, applicabile in ogni tempo e luogo perché anch’essa trascende i confini».

Déja vu. Apro le pagine 16 e 17 del libro Rise of ISIS (un best seller del New York Times) di Jay Sekulow — se ne avete voglia, fate una ricerca in rete per vedere chi è Sekulow, magari se ne riparla in una prossima puntata — e trovo le stesse identiche parole, in inglese:

«Islam purports to be a universal religion. In other words. Its teaching encompass all aspects of life and its ultimate goal is the establishment of a global Islamic State. This political idea of Islam is embodied in the concept of the ummah(community), which is the idea that all Muslims, wherever they reside, are bound together through a common faith that transcends all geographical, political, or national boundaries. This common bond is formed through Muslims allegiance to Allah and to the Prophet Muhammad. Because Muslims believe that Allah revealed all laws concerning religious and secular matters through the Prophet Muhammad, the entire ummah is governed by the divine law, or Sharia. Sharia is applicable at all times and places and, therefore, supersedes all other laws».

Il paragrafo successivo del libro di Molinari e quello di Sekulow coincidono parecchio.

Ecco Sekulow: «Traditionally Islam divides the world into two spheres: the house of Islam (dar-al-Islam) and the house of war (dar-al-harb). The house of Islam includes nations and territories that are under the control of Muslims and where Sharia law is the highest authority. The house of war includes nations and territories that are under the control of non-Muslims and that do not submit to Sharia».

Molinari scrive:

«La religione islamica divide il mondo in due sfere: la ‘Casa dell’Islam’, dove il territorio è controllato da musulmani e la sharia viene applicata, e la “Casa della guerra”, che include le zone sotto controllo altrui».

califfato_terrore_molinariAltri passaggi di Sekulow e Molinari sembrano estremamente simili. Poi continuando a leggere ho notato che altri paragrafi sembrano presi da altre fonti senza citarle. Ad esempio a pagina 119 Molinari inizia una sezione sui nasheed, che definisce come “musiche jihadiste che accompagnano le pattuglie della polizia religiosa nelle strade di Raqqa [in Siria]”. Il testo continua facendo (erroneamente) risalire la nascita dei nasheed agli anni 70 (le musiche hanno ben altra storia, irriducibile alla jihad):

La genesi dei nasheed risale alla fine degli anni Settanta quando, in Egitto e in Siria, i fondamentalisti islamici iniziano a comporli per ispirare i seguaci, motivare la jihad e diffondere il proprio messaggio. Si tratta di motivi a sfondo religioso che i Fratelli Musulmani trasformarono in inni alla ribellione politica per sfidare Hafez Assad in Siria e Anwar Sadat in Egitto, facendoli circolare sotto forma di cassette e suscitando sovente le ira di imam salafiti, che li condannano come una “distrazione dallo studio del Corano”.

A conferma dell’importanza di questi inni come fattore aggregante c’è il fatto che Osama bin Laden, da adolescente, finanziò e cantò in un gruppo nasheed, puntando a diventare popolare fra i suoi coetanei sauditi. E allora basta confrontare queste linee con l’articolo di Alex Marshall su The Guardian del 9 novembre per ritrovare il passaggio, poco diverso:

«Jihadi nasheeds date back to the late 1970s, when Islamic fundamentalists in Egypt and Syria started writing them to inspire their supporters and get out their message. “Nasheeds as a genre of religious songs are old,” Behnam says, “but supporters of the Muslim Brotherhood and other groups started making ones that were political and rebellious in the 70s. That was new.” These were circulated on cassette, reaching a wide audience. Some stringent fundamentalists, mainly Salafists with their literal interpretation of Islam, condemned nasheeds, saying music was unIslamic and a distraction from studying the Qu’ran. But this didn’t stop them. Even a teenage Osama bin Laden founded and sang in a nasheedgroup in an effort to avoid being seen as “too much of a prig”, according to The Looming Towers, journalist Lawrence Wright’s history of al-Qaida».

Dell’articolo di The Guardian manca la parte in cui un esperto intervistato spiega che i nasheed hanno un’origine antica. Molinari li trasforma maldestramente in un fenomeno salafita contemporaneo. Però i due testi sembrano intercambiabili. Queste le cose che ho notato e che hanno a che fare con questioni di ordine metodologico e deontologico.

Poi c’è tutta una serie di questioni di ordine analitico su cui vale la pena di soffermarsi.

Sulla quarta di copertina «Una nuova guerra si combatte in Europa»; poi «Chi si nasconde dietro i terroristi islamici che vogliono conquistare Roma»; e per finire «Chi li protegge e cosa possiamo fare per difenderci». Apro la prima pagina del libro e guardo la dedica di Molinari: «A Vittorio Dan Segre che era solito dire: “Per comprendere il Medio Oriente, evitiamo banalità”».

Vado a pagina 9 e trovo proprio una serie di banalità di apertura. Forse più che banalità, perché sono frasi che tracciano subito l’orizzonte politico e retorico del libro, incanalandolo subito dentro binari discorsivi precisi. Ecco l’incipit: «Abbiamo i barbari alle porte di casa. Vogliono portare il terrore nelle nostre città, decapitare i passanti, stravolgere la vita di milioni di persone, obbligarci a rinunciare alle libertà civili e precipitarci in un Medioevo sanguinario. A muoverli è l’ideologia della jihad, la volontà di combattere gli “infedeli”, di imporre su ognuno la versione più estrema della sharia, la legge islamica».

I migranti che entrano in Europa vengono dipinti come massa di potenziali reclute dello Stato Islamico—un mare di “lupi solitari” che potrebbero colpire da un momento all’altro. D’altronde l’ossatura argomentativa del libro è abbastanza semplice: lo Stato Islamico è la nuova faccia della brutalità sulla terra, vuole conquistare territorio fino a Roma e siamo tutti in pericolo. Molinari usa la nozione di “jihad totalitaria” e annuncia nell’introduzione che i lettori potranno scoprire questo mostro misterioso «dal di dentro grazie alle testimonianze raccolte fra chi ci vive, chi lo combatte e chi lo costruisce», lasciando intendere che ci saranno fonti di prima mano che aiuteranno a comprendere la sua tesi.

Tuttavia, le fonti di prima mano sono davvero poche.

Piuttosto troverete passaggi in cui Molinari fa coincidere non innocentemente Islam e Stato Islamico, al-Qaida e resistenza palestinese. Le imprecisioni e le mistificazioni sono molte. Potrei andare avanti in questa mia strana recensione, ma mi fermo, perché a questo punto le questioni di rigore metodologico e analitico si saldano. È arrivato il momento di porre qualche domanda.

Rizzoli, che lo ha pubblicato, è contenta di trasformare in un best seller —con tutta la macchina pubblicitaria che ha fatto seguito alla sua pubblicazione— un libro in cui si possono notare le strane cose che ho notato in apertura di questa mia recensione? E, mi domando, per «La Stampa», che giustamente intende raccontare il Medio Oriente con analisi dal vivo, tutto ciò non pone un problema deontologico? Tutte questioni urgenti: per Molinari, per chi lo pubblica, e soprattutto per chi lo legge. Poi c’è una questione ancora più ampia.

Molinari rappresenta uno dei pochi inviati in pianta stabile in Medio Oriente dei nostri quotidiani nazionali.

Dunque detiene un certo potere di rappresentazione di una realtà molto delicata in questo momento storico. Un potere di verità, potremmo dire. Tanto che le diverse radio, giornali, università, centri di ricerca (l’ISPI) e figure intellettuali e istituzionali (incluso il Ministro degli Esteri Gentiloni) che hanno dialogato con Molinari sul suo Il Califfato del terrore sembrano aver preso il suo libro per un lavoro affidabile — «un libro prezioso che ci aiuta a capire», per usare le parole del Ministro Gentiloni.

Il problema sta proprio qui. Rigore metodologico-deontologico e rigore analitico sono inseparabili, anche per chi come Molinari vuole entrare a far parte di quella formazione intellettuale, culturale e politica egemonica che in Italia rischia di mettere in circolo rappresentazioni islamofobe da “scontro di civiltà” che spiegano davvero poco della realtà dei paesi del mondo arabo e islamico, perché con quelle realtà hanno poca aderenza.

 

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