Bligny 42

Un libro e un documentario per riflettere
sull’industria della paura e sui dannati della metropoli

di Christian Elia

«Viale Bligny 42, quel ‘buco nero’ di Milano orribile e affascinante al tempo stesso», «Entriamo nel ‘fortino’ di viale Bligny 42». Questi sono solo alcuni, non tra i più aggressivi, dei titoli che vengono dedicati dalla stampa milanese – e non solo – a un condominio di Milano.

Che, di base, ha un difetto: piantato nel cuore di una zona ad alta potenzialità di speculazione immobiliare, resta un’isola fuori dagli schemi. Almeno così si sono adoperati a raccontarlo Andrea Staid, ricercatore e docente di antropologia culturale alla NABA di Milano, e Francesca Cogni, videomaker e disegnatrice.

In tempi diversi, con linguaggi diversi, il loro lavoro di ricerca sul campo è diventato prima di tutto condivisione di uno spazio che, come viene definito, è un ‘condominio-mondo’. Partendo dal cortile, si apre un manuale di storia urbana di Milano.

Il loro lavoro è una parte della nuova edizione di I dannati della metropoli – Etnografie dei migranti ai confini della legalità, di Andrea Staid, con film e disegni di Francesca Cogni, edito da Le Milieu edizioni. Un lavoro sulle storie (riportate integralmente, in prima persona) delle anime che rendono le città sempre più stazioni di un migrare interno ed esterno, con geografie che si ridisegnano e mutano in continuazione.

Un caseggiato enorme, di fine Ottocento, nato per ospitare gli operai dell’industrializzazione crescente, fino all’immigrazione dei meridionali negli anni Cinquanta, dalla malavita del secondo dopoguerra alle formazioni armate delle lotte politiche anni Settanta, fino alle ondate migratorie degli anni Ottanta e seguenti.

Un condominio mondo, ghettizzato a uso e consumo dell’industria della paura. Quella che non si pone mai di fronte al meticciato con l’ascolto e la condivisione, ma sempre con il metro del giudizio, della colpa, della criminalizzazione. Come se gli spacciatori fossero il tutto che elide dal contesto tutto il resto. Forse perché è più facile ragionare in termini di colpa che in termini di integrazione.

Quello su viale Bligny è solo l’ultimo capitolo del libro, arricchito dal gran bel lavoro video contaminato dalle illustrazioni di Francesca Cogni, ma che arriva alla fine del lavoro di questi anni di Andrea Staid, che ha raccolto le testimonianze dei migranti, sul viaggio, le motivazioni dello stesso, il trauma dello sradicamento e dello sfruttamento. Che a volte arriva alla fine di un percorso che genera criminalità come forma ultima di ribellione.

Un lavoro utile e accurato, che nella metafora viva del condominio di Bligny 42 assume una sua corporeità manifesta, quasi ostentata, piantata nel cuore di una Milano che in molti vorrebbero relegare in uno stereotipo incastonato di elementi scintillanti.

È invece in quei ‘buchi neri’, come li definisce la stampa mainstream, che sopravvive la quotidianità della città reale, quella che tira a campare, oggi come 60 anni fa. Una specie di scuola di vita e di convivenza, non quella patinata e posticcia, ma quella reale, dove lo spazio si condivide e qualche volta si combatte.

Un libro, un documentario, un gran lavoro di confronto e di condivisione che è un invito a perdersi nelle città, a cercare i luoghi del reale, degli odori, dei meticciati, dei conflitti e della vita quotidiana. Quelli veri.
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Un viaggio che, come scrive Staid, serve «ad approfondire l’analisi della costruzione delle classi pericolose, ovvero di quei soggetti portatori di anomalie potenzialmente eversive per l’ordine sociale». E approfondire, praticando i luoghi dell’esclusione invece di fuggirne, serve per combattere l’industria del terrore, perché le «nostre società hanno bisogno di agitare lo spettro dei nuovi barbari per ottenere almeno due effetti significativi: da un lato la criminalizzazione dei migranti che consente di sostituire le politiche sociali con quelle penali e di controllo, dall’altro consente nel dibattito pubblico di trasformare il concetto di sicurezza sociale come la priorità da affrontare».

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