Cecenia, l’ultima estate di Khava Barayeva

Dalla Cecenia, la storia della prima attentatrice suicida che, nell’estate del 2000, si è lanciata con un camion contro una base militare russa uccidendo 27 persone

di Maria Izzo

Giugno 2000. Incredibilmente, in Cecenia era di nuovo estate. In mezzo a tanto orrore, dopo tante brutture, era quasi assurda l’idea che potesse arrivare la “bella stagione”. L’estate in certi luoghi è un violento paradosso. È crudele quel sole che, tornando alto sull’orizzonte, mette in fuga le ombre e scopre il volto piagato e deforme di una creatura mostruosa, la guerra.

Erano tornati i Russi l’autunno precedente, ancora una volta, come nel 1994. Allora venivano a domare i separatisti, ora ad annientare i terroristi, i jihadisti, i wahhabiti, come venivano chiamati i compari di Shamil Basaev, il boevik, il combattente che aveva sfidato la Russia appoggiando una rivolta armata nei suoi territori meridionali, in Daghestan. E la Russia aveva prontamente risposto scatenando un diluvio di fuoco.

D’altra parte, questi terroristi potevano nascondersi dappertutto e il presidente Putin era stato chiaro: dovevano scovarli perfino nelle latrine. E forse non aveva scelto a caso quella parola, perché in quelle guerre, in cui cambiavano i nemici, i loro nomi e la lunghezza delle loro barbe, l’unico fatto certo era questo:

la Cecenia era diventata la latrina di Russia, il posto dove chiunque era libero di esibire il peggio di sé senza l’ingombro morale del pudore.

Erano tornati i Russi e con loro la guerra, ma questa volta era tutto più bieco, più sporco, più nero, perché il massacro sembrava non avere alcun fine, al di fuori del massacro stesso. Non bastava sganciare le bombe, radere al suolo città e villaggi. Bisognava fare di più, far capire ai Ceceni – e fare in modo che ne se ricordassero a lungo – quanto valevano davvero le loro vite. Niente.

 

I razzi, le granate e gli spari dei cecchini erano violenze troppo impersonali. Si doveva entrare più a fondo nelle loro esistenze, portare il terrore nelle loro case, nei loro rifugi, perché comprendessero che non c’era posto in cui potessero sentirsi al sicuro, nessun muro, nessuna porta, per quanto sbarrata, che potesse proteggerli dalla violenza. Doveva essere chiaro a tutti che non avevano più il diritto di considerarsi esseri umani, ma solo cose e per giunta di poco valore. Così avevano lanciato le zachistki, operazioni di pulizia che avevano come scopo dichiarato stanare i terroristi nascosti fra i civili, ma di fatto erano il pretesto per entrare nelle case dei civili ceceni e massacrarli, mutilarli, violentarli. Umiliarli.

Il sole era tornato a splendere su un cimitero a cielo aperto, in cui, insieme alle migliaia di cadaveri, erano stati sepolti la dignità umana e il futuro di un popolo.

La morte era ovunque, negli edifici sventrati che sembravano creature infernali con mille occhi immobili e spalancati; nei superstiti che si aggiravano come spettri fra le macerie, curvi, fragili, evanescenti; nei bambini che avevano perso gambe, braccia, occhi sulle mine antiuomo sparse ovunque, colorate come giocattoli, traditrici come ogni ordigno mortale; nelle donne violentate che nascondevano il loro dolore, perché esternarlo chiedendo giustizia in Cecenia vuol dire andare incontro a morte sicura. L’estate era tornata in una terra che da Madre era diventata un‘ostile nemica, velenosa e deturpata da piaghe gonfie come bubboni, le fosse comuni.

Per lunghi mesi Khava Barayeva si era svegliata tutti i giorni in questo orrore. Aveva circa vent’anni e non immaginava che un giorno le avrebbero dedicato canzoni, che qualcuno le avrebbe riservato gli onori che spettano a un’eroina. Non immaginava e non le importava, perché nulla le importava del futuro.

Aveva deciso di prendere parte alla jihad contro i russi, proprio come gli uomini della sua famiglia, come Arbi e Movsar Barayev, entrambi combattenti delle milizie separatiste.

Quella mattina di giugno le restavano poche ore da vivere. Molto presto sarebbe salita su un camion pieno di esplosivo e si sarebbe lanciata senza esitazioni contro la base militare russa di Alkhan Yurt, uccidendo 27 persone. Sarebbe diventata la prima attentatrice suicida in Cecenia, l’esempio che altre donne avrebbero imitato anche a conflitto finito, quando alle ingiustizie della guerra sarebbero seguite quelle di un’opprimente autocrazia.

 

Ma per molti altri, Khava sarebbe stata solo l’incarnazione della più sordida pulsione omicida. L’avrebbero condannata dipingendola come una creatura ferina, mortale e velenosa. Una Vedova Nera, questo è il nome che i giornali le avrebbero dato. Molti avrebbero parlato di lei come di un essere subumano privo di qualunque capacità di pensiero, ridotto all’incoscienza dalle droghe e dall’ipnosi, costretto al gesto estremo dal lavaggio del cervello e dalle violenze psicologiche degli estremisti islamici.

Ma Khava sapeva quello che faceva. La jihad le aveva dato l’unico punto fermo in una realtà che traballava miseramente.

Credeva con forza nel dovere di difendere la propria patria, nella guerra santa che avrebbe liberato la Cecenia dai Russi e per la guerra santa sarebbe andata incontro alla fine più alta, il martirio. Aveva lasciato un video in cui chiamava alla lotta le sue sorelle cecene e, in una terra in cui le donne erano oppresse da una società patriarcale, in un posto in cui solo gli uomini avevano il permesso di combattere, Khava aveva osato invitare padri, mariti, fratelli a non chiudere in casa le loro donne e di lasciarle libere di partecipare alla jihad.

Ai familiari aveva detto che suo il sacrificio era il prezzo per conquistare il paradiso, idea tanto più gradita quando si lascia alle spalle l’inferno. Troppo a lungo aveva osservato un mondo che cadeva a pezzi, un deserto desolato dove, fra i ruderi dell’esistenza umana, restava solo una fitta nebbia in cui sparivano i contorni e i confini: fra la bella e la brutta stagione, fra il bene e il male, fra la vita e la morte. E in quel caos disumano Khava non vedeva più alcuna differenza.

Quel giorno d’estate Khava saliva sul camion carico di esplosivo, serena. L’ultimo sorriso alla telecamera prima di accendere il motore e correre verso la base militare. L’universo oscillava ancora, ma solo per pochi minuti: la bella e la brutta stagione, la vita e la morte, lo scoppio. E poi la fine.

 

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