Canguri e draghi

Dopo dieci anni di trattative, arriva l’accordo di libero scambio tra Cina e Australia. Ancora una volta, la strategia win-win appare sicuramente vincente per Pechino, mentre a Canberra si valutano i pro e i contro

di Gabriele Battaglia, tratto da China Files

Dopo ben dieci anni di trattative, è stato firmato il China-Australia Free Trade Agreement (ChAFTA), un trattato di libero scambio destinato a cambiare le carte in tavola nell’Asia Pacifico. Era un matrimonio nell’aria, dato che la Cina è già il primo partner commerciale dell’Australia, la cui economia appare sempre più legata a quella della Repubblica Popolare: si calcola che, tra il 2009 e il 2013, ogni famiglia aussie abbia visto quintuplicare la parte del proprio reddito che dipende dal commercio tra Canberra e Pechino.

C’è del resto un trend in crescendo verso l’integrazione di tutta la regione: l’Australia ha da poco firmato accordi analoghi anche con Giappone e Corea del Sud.

Sembra funzionare soprattutto la collaudata formula del trattato bilaterale. È infatti ancora fermo al palo il trattato trans-Pacifico a guida Usa (TPP), che vorrebbe essere multilaterale ma che esclude però la Cina: troppi punti oscuri per troppi potenziali partner dagli interessi spesso contrapposti. E poi ormai dalla Cina non si prescinde. Questo fatto la dice lunga sulle difficoltà che Washington ormai incontra nel legare alla propria agenda anche i tradizionali alleati, come Australia e Giappone.

Con malcelata soddisfazione, il giornale nazionalista cinese Global Times rimarca che il ChAFTA farà da subito crescere il Pil australiano dello 0,7 per cento, mentre il TPP, se pienamente funzionante entro il 2025, potrebbe determinare un incremento dello 0,5. Al di là di numeri non ancora verificabili, è vero che il TPP è bloccato da negoziati difficili, con il Giappone e gli stessi Usa che alzano le barriere contro molti articoli australiani d’esportazione: carne, latte, riso, grano, zucchero.

I liberoscambisti celebrano dunque il nuovo trattato sino-australiano, sottolineando che saranno soprattutto le piccole imprese e la gente comune a beneficiarne.

In Australia si punta soprattutto sull’export agroalimentare e sul turismo, per emanciparsi un po’ dalle esportazioni minerarie, voce finora preponderante nei rapporti con la Cina. Ora, circa il 90 per cento dell’export australiano dovrebbe essere libero da tariffe doganali.

In senso contrario, si aprono prospettive di investimento per i capitali cinesi nel continente australe: immobiliare e infrastrutture vengono subito alla mente, ma non va dimenticato l’agroalimentare. E se i consumatori australiani godranno dell’effetto disinflattivo delle merci provenienti dall’Impero di Mezzo, le mamme cinesi faranno incetta di latte in polvere made in Australia, allentando così la pressione sui ringhiosi hongkonghini della porta accanto.

Non stappa nessuna bottiglia di Champagne la presidente del Consiglio Australiano dei Sindacati (ACTU), Ged Kearney, secondo cui il trattato sarà un gioco al massacro per i lavoratori aussie.

Come parte dell’accordo, Cina e l’Australia hanno infatti firmato un Memorandum of Understanding (MOU) sul tema del “Investment Facilitation Arrangement” (IFA). L’IFA consente a una società registrata in Australia, ma per il 50 per cento di proprietà cinese, di assumere lavoratori cinesi per progetti infrastrutturali da almeno 150 milioni di dollari australiani (poco più di 100 milioni di euro). Non è possibile farlo in qualsiasi settore, ma i limiti sono così poco definiti, che appaiono facilmente aggirabili. Non solo: pare che la forza lavoro cinese in trasferta sarebbe esclusa dalla normativa australiana sul salario minimo e il suo reddito sarebbe quindi frutto di “libera contrattazione” con l’impresa.

Secondo i sindacati, tutto ciò permette sia di scavalcare le leggi sull’immigrazione, sia di riempire l’Australia di forza lavoro a bassa qualifica, basso reddito e perfino incapace di parlare inglese, nel segno della deregulation selvaggia. Insomma, uno scenario “africano” – in riferimento al travaso di forza lavoro cinese nei Paesi dell’Africa dove la Cina investe – che costituirebbe dumping sociale verso i meno competitivi tra i lavoratori australiani.

Parlando di bottiglie più o meno stappate, il Primo ministro Abbot si è lanciato fino a dire che milioni e milioni di cinesi potranno finalmente godere del vino australiano. Francamente, di vino australiano, in Cina sembra essercene già parecchio. Però, tra 2014 e primi mesi del 2015, Canberra ha subito l’onta di essere superata dal Cile al secondo posto tra gli esportatori oltre Muraglia, dopo l’irraggiungibile Francia. È probabile che il nuovo trattato favorisca un recupero aussie, in un mercato che comunque sta contraendosi, complice la campagna anticorruzione in corso in Cina. Per l’Italia, che nonostante le fortune del prosecco arranca nelle posizioni di rincalzo (anche la Spagna vende più di noi), il nuovo accordo sino-australiano non è comunque una buona notizia.

Secondo i numeri previsti, in virtù del trattato l’Australia guadagnerà nei prossimi vent’anni quasi 25 miliardi di dollari e creerà 174mila nuovi posti di lavoro.

Il fatto è che l’accordo arriva al momento opportuno, proprio mentre l’economia cinese si sta spostando verso una crescita più trainata dai consumi interni. O almeno, questo è nelle intenzioni di Pechino. Ma esiste anche un piano politico, perché in un’Asia-Pacifico sempre più interlacciata economicamente si riducono le occasioni di conflitto. È questa la diplomazia di Pechino, così legata al fatto economico.

 

Sosteneteci. Come? Cliccate qui!

associati 1

.