Il figlio di nessuno

“… se fossi un balcanico, se fossi un balcone, il balcone balcano” cantava Elio ne “La canzone del I maggio”. Con la fine delle guerre che hanno portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia un nuovo spazio si è creato nella cartina europea: un buco nero, sgangherato, esotico, eccentrico, sanguigno e bizzarro. Dove la gente spara in aria con il kalashnikov per dimostrare la sua ilarità e brinda fino a frantumare i bicchieri. Così sono ri-nati i Balcani come un’idea di ferinità, caos e violenza liberatrice. Tutto quello che spaventa ma allo stesso tempo attrae le società europee riversato in un’area del mondo. Poi sono arrivati Goran Bregovic ed Emir Kusturica e hanno venduto un brand da esportazione, che in Europa occidentale ha trovato particolari estimatori. In questo blog offriremo alcuni frammenti culturali dallo spazio jugoslavo e post-jugoslavo che hanno poco in comune, se non quello di riuscire sconosciuti a chi in quei luoghi va a cercare i Balcani. Proveremo qui a raccontare quello che ascoltano, guardano e leggono i nostri vicini a est di Trieste.

di Francesca Rolandi

“Il figlio di nessuno” [Ničije dete], girato dal regista serbo Vuk Ršumović nel 2014, lascia
letteralmente senza parole. E di parole è povero anche il film, che, in molte sue parti, nonostante la mancanza di dialoghi, tiene appeso al filo lo spettatore.
Lo spunto proviene da una storia vera ed è il punto di partenza del film. Nel 1988 alcuni cacciatori catturano tra le montagne della Bosnia un bambino che sembra essere cresciuto nei boschi insieme ai lupi che gli avrebbero insegnato a sopravvivere: il bambino cammina a quattro zampe, ringhia e assume gli stessi atteggiamenti dei suoi genitori adottivi.

Portato a forza in un centro per minori a Travnik, il bambino viene in seguito mandato a Belgrado in un’altra istituzione, dove iniziò un doloroso quanto sorprendente percorso di educazione alla vita a contatto con l’uomo.

Nel giro di pochi anni il bambino, a cui era stato attribuito casualmente il nome di Haris, compie dei passi avanti sorprendenti, che lo portano, anche grazie alla dedizione di un educatore del centro, a terminare il primo anno di scuola.
La violenza di una situazione di costrizione, ma anche la curiosità e la scoperta di un mondo, la sovrapposizione di rabbia e affetti riposti in altri compagni dalle vita trasversali, sono rappresentati con l’umanità animale di un essere umano che non si considera tale.

Ogni gesto deve essere appreso, dietro ogni minima abitudine c’è fatica, dal tenere in mano un
cucchiaio ad allacciarsi le scarpe.

Nella prima parte del film i progressi di Haris, nonostante i traumi che si depositano nel suo
inconscio, sembrano significare che il riscatto sia possibile.
Ma poi viene la guerra. Inizialmente da lontano, come un eco soffuso, poi l’incontro con chi dalle aree di guerra viene e infine l’impatto devastante sulla vita di Haris. Che proprio perché nato in Bosnia e perché porta un nome musulmano scelto dal caso diventa
vittima di un ingranaggio.

Nella parte finale Haris sembra essere un simbolo della natura, violata dalla violenza della guerra, come i boschi della Bosnia candidi di neve, che si trasformano in luoghi di violenza e imboscate.

Il film, duro e fiabesco allo stesso tempo, è una riflessione sui tema della guerra e dell’identità, ma anche sull’alterità simboleggiata da Haris, figlio del bosco cresciuto con i lupi che impara gradualmente a vivere tra gli umani. Un barlume di speranza interrotto dalla guerra che trasforma la società, metaforicamente, in un covo di lupi.

Una nota a margine. Il nome del regista, Vuk, in serbo significa “lupo”.

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