Ue-Grecia. Il ricatto contro il dissenso

L’Unione Europea come l’abbiamo conosciuto sinora non esiste più

Da Bruxelles
Batos Matià*

L’irresponsabile decisione della Cancelliera tedesca, Angela Merkel, di chiudere la porta a qualsiasi accordo con il governo greco, alla quale si è docilmente accodato in questi giorni l’Eurogruppo, cambia radicalmente i fondamentali della costruzione europea e ne stravolge i paradigmi politici.

L’obiettivo strategico perseguito dagli evangelisti dell’austerità è ormai evidente: sbarazzarsi di Alexis Tsipras e del suo governo insopportabilmente non in linea con l’ideologia della governance.

Martedì 30 giugno, quando il governo di Atene si era formalmente reso disponibile ad accettare il piano dei creditori leggermente modificato in cambio d’impegni sulla ristrutturazione del debito greco, c’erano tutte le conclusioni per chiudere un accordo che avrebbe permesso alle varie parti di salvare la faccia -di questo si tratta quando si parla di “compromesso”- e di rilanciare la dimensione solidale dell’Unione Europea. Come noto, Angela Merkel ha volutamente fatto saltare il tavolo delle trattative, rinviando il tutto a dopo il referendum di domenica.
La strategia è chiara: se vince il “sì” sarà il trionfo dell’austerità, poco importa se il risultato viene perseguito terrorizzando in termini politici ed economici un intero popolo, puntando sulla “paura”; se vince il “no” la Grecia dovrà comunque rinegoziare un nuovo accordo (Atene in questo momento è totalmente sprovvista di qualsiasi “paracadute finanziario”, la BCE ha sospeso gli aiuti alle banche, il secondo “bail out” è stato sospeso) e verranno tatticamente poste tali e tante condizioni che per uscire dall’impasse saranno forse necessarie nuove elezioni il cui risultato sperato dall’Eurogruppo è l’insediamento di un governo docile ed ubbidiente.

Non ci sono precedenti in questo posizionamento europeo, siamo di fronte ad uno stravolgimento dei “fondamentali europei”.

Quando Merkel e l’Eurogruppo cercano di rassicurare i mercati e l’opinione pubbliche che comunque la Grecia “non uscirà dall’euro” dicono solo una mezza verità: certo che vogliono Atene nell’Eurozona, ma con un altro governo, senza Tsipras e Varoufakis.
Questo accade perché la governance europea ha una dimensione autoritaria che impregna la sua filosofia e i suoi testi legislativi, non ammette il dissenso politico. Tsipras in questi mesi non ha fatto altro che cercare un accordo socialmente e finanziariamente sostenibile basato su poche verità storico-economiche che solo gli accecati dall’ideologia della governance si rifiutano di vedere:

1) cinque anni di austerità sono serviti esclusivamente a peggiorare la situazione macroeconomica, gettando milioni di greci nella povertà;

2) qualsiasi accordo sul medio-termine non serve assolutamente a niente se non si affronta il problema dell’insostenibilità del debito greco, una banale evidenza;

3) solo una politica di crescita ed investimenti può creare le condizioni macrofinanziarie e macroeconomiche per permettere alla Grecia di far fronte ai suoi impegni.

Ma tutto questo non interessa alla Merkel e all’Eurogruppo. L’importante è fare tabula rasa di qualsiasi contestazione alla governance, distruggere Tsipras serve anche a mettere al suo posto Podemos in Spagna ed altre forze per esempio in Irlanda o in Portogallo che possono ambire a posizioni di governo.

Dimenticando peraltro che Tsipras è il risultato politico dell’austerità europea: sono risibili le accuse che gli vengono rivolte dall’Eurogruppo, Tsipras è ai comandi da cinque mesi, è il curatore fallimentare delle politiche dei governi precedenti diretti da conservatori, socialisti, anche in coalizione tra loro, che hanno sempre eseguito gli ordini.
Il ricatto in queste ore è totale, si guardino le ultime dichiarazioni del Presidente dell’Eurogruppo, il socialista olandese Jeroen Dijsselbloem, il quale dice in sostanza che non è per nulla scontato che i leader europei siano disponibili a rimettersi al tavolo delle trattative se vince il “no”. Non hanno precedenti neanche gli interventi a gamba tesa sul referendum greco da parte di funzioni di garanzia istituzionale come quelli del Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, o del Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, che hanno ossessivamente invitato gli elettori greci a votare “Sì” in una consultazione popolare nazionale (faranno lo stesso con la Gran Bretagna quando sarà ora del referendum sull’appartenenza all’Unione Europea?). L’union sacrée contro Tsipras, accusato di tutti i mali del mondo, si manifesta in tutta la sua potenza.

Ma, alla fine, cosa chiede il governo greco? Che le misure chieste dall’Eurogruppo vengano accompagnate da disposizioni sulla ristrutturazione del debito, altrimenti le loro misure non faranno che aggravare ulteriormente la situazione.

Quanto di più ragionevole ci sia, poi ovviamente si tratta di discutere dei “dettagli”, certo importanti ma in secondo piano rispetto alla strategia generale: un punto sul quale i leader europei fanno i sordi. Quanto sia socialmente criminogena e macroeconomicamente irresponsabile la posizione di questi ultimi lo dimostra il documento del Fondo Monetario Internazionale di cui parlano tutti gli organi di stampa (venerdì 3 luglio), nel quale si dà sostanzialmente ragione alle richieste di Tsipras: anzi, va oltre le richieste del governo di Atene. In pratica, nel documento viene detto che anche se applicherà tutte le disposizioni dell’Eurogruppo la Grecia avrà comunque bisogno di misure significative di ristrutturazione del debito, ne viene proposta di fatto la cancellazione per almeno un 30% del PIL, per riportarlo a livello sostenibili. Perché se lo dice Tsipras ciò “non va bene”?

La verità è che l’impianto generale delle politiche europee verso la Grecia sono fallimentari, l’Unione Europea e la Troika non hanno intenzione di ammetterlo, fanno prima a dare il ben servito a Tsipras… Il tutto creando un clima di ostilità dell’opinione pubblica verso i greci, colpevoli “di non voler fare le riforme” e poi “perché mai dobbiamo pagare noi per loro”?

Abbiamo investito in Grecia una quantità di miliardi di euro addirittura superiore all’intero debito pubblico greco: non sarebbe stato più intelligente cancellarlo subito -anche se questo è politicamente impossibile- o comunque ristrutturalo all’inizio della crisi?

Ma ciò non conta, l’obiettivo è il controllo politico ed ideologico della governance, la crisi in generale è stata usata per destrutturare il mercato del lavoro, annientare il modello sociale europeo, imporre politiche di bilancio ispirate all’austerity, ridurre il ruolo dello Stato nell’economia, liberalizzare i mercati mettendo i popoli l’uno contro l’altro.

Le politiche del centrodestra europeo puntano allo smantellamento di qualsiasi forma di resistenza alla governance: da notare che l’insieme del centrosinistra socialista europeo ha ormai assunto, interiorizzato la stessa prospettiva strategica dei conservatori. È la governance stessa -come si vede- che seleziona il personale politico, lo mette al servizio di interessi finanziari ed economici che non hanno nulla di democratico, non si può permettere che ciò venga messo in discussione, altrimenti “crolla il palco”.
Tutto ciò produce anche altri effetti perseguiti dagli evangelisti della governance: la rinazionalizzazione delle politiche europee, il depotenziamento del metodo comunitario, l’annientamento dello spirito della costruzione europea, la centralità del dominio politico tedesco sul resto dell’Europa. È tutto il baricentro politico-istituzionale dell’Unione Europea che si è spostato, in modo irreversibile.

E con conseguenze evidenti: se l’UE non riesce a dare una mano ad un Paese che esporta meno della provincia di Reggio Emilia, come pensiamo possa intervenire su altri dossier importanti e più complessi?

Da settimana scorsa l’UE è un coordinamento tra governi, gli egoismi nazionali prevalgono e qualsiasi dimensione comunitaria è destinata ad essere ridotta. Altro che Grecia e Tsipras, questo è quello che è accaduto.
I veri anti-europei sono quelli che hanno impedito l’accordo con la Grecia, sono quelli che cercano di imporre le loro condizioni senza basi macroeconomiche di sostenibilità, sono quelli che mettono l’UE a servizio delle banche invece dei cittadini, sono quelli che impediscono politiche di investimenti e crescita per mantenere il growth divide tra gli Stati Membri per tenerne sotto controllo i destini macroeconomici, sono quelli che immaginano rapporti sociali low cost che mettono i lavoratori europei in competizione diretta con quelli cinesi o vietnamiti per abbassare inevitabilmente i livelli di reddito dipendente, sono quelli che mettono l’Europa ai margini della Storia.
Costoro peraltro (forse) non si rendono conto che l’Unione Europea è una costruzione fragile (non è uno “stato”) basata sul libero consenso al progetto d’integrazione sempre più ridotto.
Per assurdo, il referendum greco è l’ultimo sussulto di democrazia rispetto all’ecatombe democratica che stiamo vivendo in questi giorni, un esercizio di sano europeismo per cercare di riportare l’Unione dentro i binari del modello sociale europeo dai quali la macchinista Merkel l’ha fatta deragliare. Al di là del quesito referendario e della questione “accordo sì, accordo no”, l’alternativa è drammaticamente semplice: da una parte c’è un’Europa germano-centrica dove il metodo comunitario non c’è più, tanto si fa quello che si decide a Berlino; dall’altra c’è un’Europa che recupera il suo spirito originario e, tutti attorno ad un tavolo, trova con calma credibili vie di uscita per gestire in modo comunitario i suoi problemi. Il referendum convocato da Tsipras è questo, il resto -diciamo così- sono “dettagli”… Il popolo greco ne è certamente cosciente, anche se non si può chiedere a chi da anni stringe la cinghia e oggi non può andare in banca perché la BCE gli ha tagliato i fondi di “suicidarsi in nome della democrazia”. Qualsiasi risultato andrà compreso e rispettato. Quanto a Tsipras -e malgrado la Merkel- è comunque “quello che ci sta provando”, e nel deserto politico-intellettuale europeo oggi non è poco…

*pseudonimo di un consigliere politico al Parlamento Europeo

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