A Melo moriva Atene

Ad Atene, oggi, muore il sogno europeo? A Cracovia ci ho pensato e ho avuto paura


di Nicolò Cesa

In questi giorni parlano tutti della crisi greca. Ne parlano gli economisti, gli intellettuali, i sociologi, i preti, i politici nei talk show delle sette del mattino, gli editorialisti, gli attori, i cantanti. E poi ancora i registi, i filosofi, i ricercatori e i docenti universitari, i burocrati, i capi di governo con più o meno autorevolezza, Romano Prodi, parlando addirittura di ipotetico terzo conflitto mondiale. 
Anche a me è capitato di parlarne, ma soprattutto di pensarci. E pure parecchio.


Specie una settimana fa, mentre attraversavo le frontiere della Mitteleuropa per raggiungere Cracovia, in macchina, da Milano. Ci pensavo mentre attraversavo il confine tra l’Austria e la Repubblica Ceca, un tempo stati divisi dalla geopolitica e dalla dicotomia est-ovest. Confini invalicabili, che segnavano le periferie dei due mondi: l’occidente capitalista e l’oriente comunista.

Eppure oggi, quella frontiera si può attraversare senza alcun controllo. Senza alcun check-point. Senza che si debba esibire alcuna giustificazione burocratica. Li, in quel momento, ho pensato all’Europa. Mi sono sentito un cittadino Europeo. Allo stesso modo a Cracovia, quando giungono le luci del tramonto e dalla vista improvvisamente scompaiono le grige simmetrie funzionaliste; i mleczny bar chiudono e aprono i bistrot.

Nowa Huta si svuota, mentre si riempie Plac Nowy. Si riposano i residui di occupazione sovietica e la città si spoglia del suo passato al di qua della cortina di ferro, per indossare gli ordinati abiti da cerimonia, quelli asburgici.

Due città, due sensibilità: eccola l’Europa.

A tutti noi è capitato (magari durante un viaggio, o più facilmente durante le malinconiche ore di ritorno da un grande viaggio) di immaginarci “felici e sistemati” in questa o quella latitudine del mondo. Mi è capitato quando ero in Islanda, in Danimarca e più in generale in quegli stati in cui i residui social-democratici del secolo breve sembrano convincerti che una forma di paradiso terreno, in fondo, esiste.

Oppure in Polonia, dove la crescita economica si attesta a livelli spaventosi e le infrastrutture marchiate Unione Europea ti fanno credere che il Vecchio Continente non ha ancora finito del tutto la sua spinta propulsiva, ed in fondo un senso ce l’ha. Oppure in Serbia, dove lo spirito, la solidarietà e l’amore per le piccole cose dei balcanici, palesato nell’aria di una sera d’autunno ascoltando jazz sul terrazzo di Čekaonica ti convincono che esiste quel posto nel mondo in cui le cose inutili (come la musica, l’arte, la bellezza o un buon bicchiere di Prokopac in riva al Danubio) possono trasformarsi in qualcosa di necessario e vitale.



A Cracovia però io pensavo alla Grecia. Si, perché se mi chiedessero qual’è quel luogo ideale in cui vorrei vivere, in cui – in qualche modo – la maggior parte di queste aspetti potrebbero coesistere (senza che quindi si debba fare una scelta tra il sole o il welfare, come nel film “In ordine di sparizione”, di Hans Petter Moland) io penso subito all’orazione funebre di Pericle, capolavoro storico di Tucidide. Io penso subito all’antica Grecia.
A quell’Atene maestra di civiltà e bellezza, da cui nasce tutto. Atene è quel tutto.

È la democrazia:

«Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta».
É il diritto allo svago:

«Inoltre, a sollievo delle fatiche, abbiamo procurato allo spirito nostro moltissimi svaghi, celebrando secondo il patrio costume giochi e feste che si susseguono per tutto l’anno e abitando case fornite di ogni conforto, il cui godimento quotidiano scaccia da noi la tristezza».
È l’anti-erosimo:

«Diverso è pure il sistema di educazione: mentre gli avversari, subito fin da giovani, con faticoso esercizio vengono educati all’eroismo; noi, invece, pur vivendo con abbandono la vita, con pari forza affrontiamo pericoli uguali».
È l’interesse vitale per la bellezza:

«Noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezza».

Atene è stata tutto ciò. È stata persino anche un po’ Berlino e un po’ Bruxelles. Basta leggere un altro documento storico – capolavoro di filosofia politica di Tucidide, ovvero Il dialogo dei Melii e degli Ateniesi – per avere chiaro il quadro di quello che sta accadendo in queste settimane.
Questa volta però i ruoli sembrano essere invertiti.

La Melo di Tucidide è una piccola isola che vorrebbe preservare la sua neutralità. Atene invece è l’impero, il pianeta Venere intento in periodo di preparazione al conflitto(si parla della guerra del Peloponneso, in cui si sfideranno Atene e Sparta) ad attirare più satelliti possibili nella sua orbita. Melo però è intenta a resistere, forte delle sue ragioni ideali. Un giorno degli emissari di Atene sbarcano sulla piccola isola e decidono di incontrare i Melii, a cui esporranno le ragioni della propria visita:

«Se, dunque, siete convenuti per fare sospettose supposizioni riguardo al futuro o per altre ragioni, piuttosto che per esaminare la situazione concreta che avete sotto gli occhi e prendere una decisione che comporta la salvezza della vostra città, possiamo far punto; se, invece, quest’ultimo è lo scopo del convegno, noi siamo pronti a continuare il discorso».

Gli emissari di Atene lasciano subito intendere che non ci sarà alcuna trattativa. A Melo non è offerta alcuna scelta, se non tra la salvezza e la distruzione. Uno non-scelta, quindi, dettata dal fatto che, come cercano di spiegargli gli ateniesi, in politica internazionale la giustizia non esiste, se non in condizioni di parità di forze (e non è certo il caso della piccola isola e dell’impero). Esiste l’utilità:

Meli: «E come potremmo avere lo stesso interesse noi a divenire schiavi e voi ad essere padroni?». Ateniesi: «Poiché voi avrete interesse a fare atto di sottomissione prima di subire i più gravi malanni e noi avremo il nostro guadagno a non distruggervi completamente».

E ancora:

Ateniesi: «[…] Deliberate con prudenza: poiché questa non è una gara di valore tra voi e noi, a condizione di parità, per evitare il disonore; ma si tratta, piuttosto, della vostra salvezza, perché non abbiate ad affrontare avversari che sono di voi molto più potenti».
Meli: «[…]Ad ogni modo, per noi cedere subito significa dire addio a ogni speranza: se, invece, ci affìdiamo all’azione, possiamo ancora sperare che la nostra resistenza abbia successo».

La risposta degli Ateniesi, da manuale di realismo politico:

«La speranza, che tanto conforta nel pericolo, a chi le affida solo il superfluo porterà magari danno, ma non completa rovina. Ma quelli che a un tratto di dado affidano tutto ciò che hanno (poiché la speranza è, per natura, prodiga) ne riconoscono la vanità solo quando il disastro è avvenuto; e, scoperto che sia il suo gioco, non resta più alcun mezzo per potersene guardare in futuro. Perciò, voi che non siete forti e avete una sola carta da giocare, non vogliate cadere in questo errore. Non fate anche voi come i più che, mentre potrebbero ancora salvarsi con mezzi umani, abbandonati sotto il peso del male i motivi naturali e concreti di sperare, fondano la loro fiducia su ragioni oscure: predizioni, vaticini, e altre cose del genere, che incoraggiano a sperare, ma poi traggono alla rovina».

Leggendo queste righe è praticamente impossibile non pensare a quello che sta accadendo in queste settimane. Sembra un dialogo tra Juncker e Tsipras, tra la Merkel e Varoufakis. Tucidide voleva dimostrarci come le scelte idealiste, in politica, siano dannose. Ma chi fra Atene e Melo è l’idealista?

Apparentemente ed inizialmente Melo. Anzi, senza dubbio Melo, che in nome della nobile resistenza ha deciso di affidarsi completamente alle “ragioni oscure”. Ma poi leggendo le ultime righe di questo dialogo viene facile immaginare come pure Atene abbia peccato di idealismo: Melo è stata non solo invasa, ma distrutta, saccheggiata, «Resi schiavi i fanciulli e le donne e sull’isola inviati 500 coloni».

E’ il realismo che sfida l’idealismo, in quel difficile rapporto che emerge chiaro e nitido, in questi tragiche giornate. D’altronde Tucidide ci vuole proprio dire che in prima battuta, il realismo vince. Smaschera gli inganni della morale, gli appelli alle forze sovra-umane. Fa emergere con chiarezza i rapporti di forza, convincendoci che in politica internazionale concetti come la giustizia, il diritto, sono meri inganni (e non serve un testo politico di 2500 anni fa per convincerci di questa cosa, basta leggere un paio di risoluzioni ONU a caso per cogliere la lucidità di questa tesi). D’altronde, la piccola Melo poteva accettare e salvarsi, no?!

Ma Tucidide ci vuole dire anche un’altra cosa, ben più importante, ovvero che certamente un bagno di realismo avrebbe permesso alla piccola Melo di salvarsi; di risparmiare la schiavitù alla popolazione (e quando leggo quel passaggio, mi vengono in mente le immagini degli anziani disperati alle code dei bancomat di questi giorni); che gli dei non per forza di cose stanno dalla parte della ragione o del più debole, quando si tratta di rapporti politici. Ma soprattutto che quell’episodio storico aveva certamente decretato la fine della piccola isola di Melo, ma sopratutto l’inizio della fine dell’impero Ateniese.

In quella spropositata reazione (eccolo l’idealismo ateniese), Atene si era giocata la faccia, aveva tradito la sua natura, il suo senso originario. Le belle parole di Pericle erano state soffocate dalle grida degli invasori, sotto le macerie lasciate dal conflitto. Nelle prigioni colme di innocenti e nella barbarie dell’invasione. Che bisogno c’era di accanirsi in quel modo, con una forza così piccola? Atene pensando di dimostrare la sua forza stava, in realtà, sfoggiando tutta la sua debolezza. 
Ecco, a Melo moriva Atene. Ad Atene, oggi, muore il sogno europeo?

A Cracovia, tra una galaretka e un bicchiere di kompot, tra una frontiera inesistente e una scuola elementare a Kazimierz ristrutturata coi fondi europei, mi sono fatto questa domanda. E ho avuto paura.