Ritorno a Srebrenica

Le commemorazioni per il ventesimo anniversario del genocidio di Srebrenica si svolgeranno in una cittadina dove non vive più nessuno

di Andrea Oskar Rossini, tratto da Osservatorio Balcani Caucaso

“La linea era qui, a Zelenj Jadar. Questo era il check point dell’Unprofor, davanti c’erano i serbi e noi eravamo 20 metri più giù. Dritto arrivi alla Drina, a destra vai a Milići. Srebrenica è dietro di noi. Se questa linea saltava, i cetnici entravano in città”.

Percorro in macchina con Muhamed la strada fatta dall’esercito di Mladić nel luglio del ’95. Quando a Srebrenica è arrivata la guerra, lui aveva meno di dieci anni. Il suo villaggio guarda il massiccio del Tara, e veniva bombardato direttamente dalla parte della Serbia, oltre il fiume. Ad ogni curva si ferma, e mi spiega cos’è successo in quel punto. “Là sopra è ancora tutto minato. Qui, a Kralja Voda, i paramilitari di Goran Zekić hanno incendiato tutto subito, nel ’92. Si vedono ancora i resti del loro lavoro. Oltre la zona di separazione, a destra, ci sono le tombe dei soldati uccisi. Le trincee erano là sopra. La Serbia è là, un chilometro in linea d’aria”.

Sono passati vent’anni. Non sembrano così tanti, mentre Muhamed mi mostra i luoghi in cui ha vissuto da bambino. Un genocidio non finisce quando finiscono le uccisioni. Continua, con le domande che torturano i sopravvissuti e le ossa che continuano ad affiorare. “Vedi quell’altura? Da là è facile fermare i carri armati. Se blocchi il primo, hai chiuso la strada. Gli olandesi però, invece di difendere la città, ci hanno impedito di sparare. Sono stati complici nella caduta di Srebrenica, e nel genocidio”.

Le recenti rivelazioni del canale televisivo Argos, e l’inchiesta del britannico The Observer, dicono che le responsabilità per quanto avvenuto nel luglio del ’95 non sono solo dell’Olanda. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti avevano già deciso di non difendere con gli aerei le truppe olandesi sul terreno, lasciando l’enclave indifesa. Ci sarebbe poi anche un altro capitolo nel lungo elenco delle responsabilità. Quello dei bosniaco musulmani. Perché il loro comando non c’era, nei giorni cruciali? Perché non è stata autorizzata una controffensiva, almeno per aiutare quelli che cercavano di scappare attraverso le montagne? Una recente intervista del quotidiano bosniaco Dnevni Avaz al comandante della difesa della cittadina, Naser Orić, ha riaperto anche questi interrogativi. Sono passati molti anni, o forse no.

La strada delle montagne

In comune mi riceve il giovane sindaco di Srebrenica, Ćamil Duraković. Anche lui era poco più che un bambino quando la città è caduta. “Avevo 16 anni, e mi sono trovato separato dalla mia famiglia. Ho dovuto decidere da solo se arrendermi a Potočari, dove c’erano le Nazioni Unite, oppure cercare di raggiungere Tuzla, attraverso le montagne. Ho scelto la strada delle montagne. Formammo una colonna a Šušnjari, per cominciare la marcia. C’erano circa 13.000 persone. Pochi sono sopravvissuti, io sono uno di loro”.

Il sindaco mi dice di ricordare “ogni dettaglio” di quella marcia di 7 giorni e 6 notti verso Tuzla, ma preferisce tagliare corto. “Ogni giorno c’erano agguati, imboscate, sparatorie. È stato l’inferno.”
Dopo la guerra, Duraković è andato come profugo negli Stati Uniti, dove si è laureato in economia. Ha deciso di tornare nel suo paese, “perché questa è la mia patria, e voglio contribuire a migliorare la situazione”.

Al termine di un’intensa campagna elettorale, giocata sull’attribuzione del diritto di residenza (e di voto) ai bosniaco musulmani che sono stati espulsi da qui nel ’95, nell’autunno scorso ha vinto le amministrative, diventando primo cittadino.

“È ingiusto, dopo il genocidio, dire che ci sono elezioni libere. Uccidiamo oltre 8.000 persone e poi facciamo delle belle elezioni democratiche. È democrazia questa?” Duraković, sostenuto da un’associazione bosniaca, la Coalizione Primo Marzo, ha cercato di convincere quanti più bosniaco musulmani (bosgnacchi), tra quelli che non vivono più a Srebrenica, a registrarsi nuovamente qui. “É stata una gara testa a testa. Oggi qui il 50% della popolazione è serba, e il 50% bosniaco musulmana. Alla fine ho vinto per poche centinaia di voti”.

Prima della guerra, a Srebrenica vivevano circa 28.000 bosgnacchi e 9.000 serbi. Dieci anni fa, nel 2005, avevo chiesto all’allora sindaco, Abdurahman Malkić, quanti fossero gli abitanti del comune. “Circa 10.000”, mi aveva risposto. Rivolgo la stessa domanda a Duraković, dieci anni più tardi. “Settemila”, dice.

Il processo di ritorno non ha avuto successo. Invece di crescere, la popolazione continua a diminuire. Secondo Duraković, “la chiave per permettere il ritorno è la stabilità economica. Posti di lavoro e sviluppo faranno ritornare la gente. L’economia, inoltre, aiuta a ricreare legami tra le persone, favorisce la riconciliazione. Noi sappiamo come vivere insieme, dobbiamo solo avere un futuro stabile dal punto di vista economico”.

E’ importante avere speranza, e le parole del sindaco mi rincuorano. Ma resto perplesso. Siamo in Republika Srpska, l’entità della Bosnia Erzegovina a maggioranza serba, in un comune guidato da un sindaco bosgnacco. Il quadro politico è complicato, non facilita gli investimenti, e la situazione generale del paese non è rosea.

Potočari

Percorro i pochi chilometri che separano Srebrenica da Potočari, dove sorge il Memoriale del genocidio. L’undici luglio del ’95 migliaia di bosniaco musulmani, terrorizzati dopo l’ingresso in città delle truppe serbe, avevano cercato rifugio qui, nella sede dei caschi blu. Le truppe olandesi invece consegnarono i civili ai serbi. È questa la colpa dell’Olanda, non quella di aver rinunciato a difendere un’enclave indifendibile. Lo ha riconosciuto la stessa giustizia dei Paesi Bassi, al termine di una causa avviata da uno dei sopravvissuti, Hasan Nuhanović, un uomo che da anni si batte da solo per la verità su quegli eventi. Sua madre, suo padre e suo fratello si erano rifugiati nella base dove lui lavorava come interprete. I militari delle Nazioni Unite, invece, li fecero uscire. Hasan li ritrovò solo anni dopo, nelle fosse comuni.

“L’idea di creare un Memoriale qui è del ’98”, mi spiega Amra Begić, una delle dirigenti della struttura. “Le madri hanno deciso di seppellire i loro figli tutti insieme, nel luogo dove li avevano visti per l’ultima volta. I lavori sono iniziati nel 2001, e oggi sono sepolte qui 6.241 persone”.

Le chiedo quanti visitatori accolga ogni anno il Centro. “La media è di 130.000 visitatori all’anno. La maggior parte viene dalla Federazione di Bosnia Erzegovina, soprattutto studenti delle scuole superiori e universitari. Ci sono poi individui e gruppi che vengono da tutto il mondo, molti dalla Turchia, ma anche dalla Germania e dall’Italia, in particolare gli scout”.

Sono cifre impressionanti, per un paese con meno di quattro milioni di abitanti. Calcolo che quasi tutti i bosniaco musulmani ci sono venuti in visita, almeno una volta. La costruzione dell’identità nazionale, dopo la guerra, si basa sul riconoscimento del proprio essere stati vittime. Non che questo non sia avvenuto. Mi avrebbe rassicurato di più però sapere che qui vengono ogni anno 100.000 persone dalla Republika Srpska. Ma questa non è la Germania di Willy Brandt. Qui il vittimismo vive spalla a spalla con il negazionismo. Una miscela letale. Meglio non essere troppo pessimisti, però. Naturalmente qui la guerra non ci sarà più. Anzi, “mai più”.

Alex Langer

Venti anni fa, pochi giorni prima del genocidio in Bosnia, Alexander Langer, pacifista, uno dei fondatori del movimento verde italiano ed europeo, si era tolto la vita. Eletto al Parlamento europeo, per anni aveva richiesto invano all’Europa e alla comunità internazionale un impegno concreto per porre fine ai massacri nei Balcani, impegnandosi al tempo stesso nel movimento internazionale di solidarietà, in particolare con la città di Tuzla. Oggi la Fondazione di Bolzano che porta il suo nome è impegnata a proseguire il suo impegno, a Srebrenica.

“Vorremmo ripartire dall’ultima parte del messaggio di Langer, dal Verona Forum del ’94, il cui titolo era: Può l’Europa non essere multiculturale?”, mi spiega Andrea Rizza, uno dei responsabili della Fondazione. “Nel decimo punto del suo Decalogo per la convivenza interetnica, Langer parla dei gruppi misti, che definisce come l’unico rimedio al possibile riemergere di barbarie etnocentriche. Noi vogliamo provare a verificarlo, qui in Bosnia. Porsi delle buone domande, a volte, è meglio della pretesa di avere buone risposte”.

Trascorro l’ultima parte della giornata con Muhamed. Fuggito da Srebrenica con la madre durante la guerra, ha peregrinato per anni come profugo. Alla fine, come il sindaco e pochissimi altri, ha deciso di tornare a casa sua. “Il ritorno è stata un’emozione fortissima. Avevo vissuto qui solo undici anni, e poi quindici tra Tuzla e Sarajevo. Quei quindici anni però non sono niente rispetto ai miei undici anni, quelli che ho vissuto nel luogo in cui sono nato. Sono tornato alla fonte di tutti i miei ricordi. Ovunque mi volti c’è qualcosa, un racconto, un episodio che mi appartiene. Questa è una delle più grandi ricchezze che ho, oggi. È una parte di me, come le mie mani”.

Selo veselo

Mesi fa avevo chiesto ad Abdulah Sidran, scrittore e poeta bosniaco, di spiegarmi qualcosa della Drina, della storia di questa regione. Mi aveva avvertito che la gente della Drina ha un attaccamento alla propria terra che non è possibile spiegare, né capire. Una specie di patologia, una parte integrante della psiche. Dovunque siano andati a vivere come profughi, nei quattro angoli del mondo, non fanno che pensare alla Drina.
Poco dopo essere ritornato a Srebrenica, Muhamed ha trovato un nastro di cui ignorava l’esistenza. Era la registrazione di una vecchia trasmissione radiofonica, “Selo Veselo” (Villaggio Felice), a cui suo padre, preside di una scuola media, aveva partecipato come ospite. Quando Muhamed era fuggito da Srebrenica, in un convoglio con la madre e la sorella, lui era dovuto restare indietro. “Ricordo bene mio padre, il suo volto. Una voce però è difficile da ricordare. Se non ascolti una voce a lungo, quella voce si perde. Ritrovare un tesoro così, non ha prezzo. Se fossi andato a vivere in qualsiasi altro posto, questo non mi sarebbe potuto accadere”.

Alla fine della giornata, mi accompagna sopra il lago Perućac, dove alcuni anni fa erano affiorati i cadaveri dei musulmani gettati nella Drina a Višegrad, qualche chilometro più a monte. Mi spiega che nei villaggi dal lato bosniaco, dove insegnava suo padre, prima della guerra c’erano così tanti bambini che le scuole non bastavano, bisognava fare i doppi turni.

E’ ormai sera, riparto per Sarajevo. Sono venuto qui per la prima volta alla fine degli anni ’90. Da allora sono tornato spesso, nella convinzione, forse un po’ naive, che per capire l’Europa in cui vivevo dovevo capire cos’era successo in queste contrade della Bosnia orientale, dove da secoli serbi e musulmani vivono fianco a fianco.

Tra qualche giorno verranno qui ministri degli Esteri, presidenti e migliaia di persone per onorare le vittime del luglio ’95. Guardo quelle scuole, venti anni fa troppo piccole per ospitare tutti i bambini. Quegli edifici vuoti, in quei villaggi vuoti, risuonano “come una scarpa senza piede, un vestito senza uomo”. Dopo la guerra c’erano i profughi, poi qualcuno ha cominciato a tornare, e sembrava quasi che le case si riempissero di nuovo. Poi si è fermato tutto.

Di una cittadina di 40.000 abitanti, oggi ce ne sono solo 7.000. Forse. Qui non c’è più nessuno. Né serbi, né musulmani. Sono di più i morti. Ci sono solo loro, quelle migliaia di uomini, ragazzi, a Potočari che dormono sulla collina.