I fiori di Srebrenica

Il premier serbo contestato, ma la parata di leader manca di coerenza

di Christian Elia

Aleksandar Vucic, il premier serbo, alla fine, passerà per vittima. Anche quando, nella vita, sei stato capace di pronunciare frasi come: “Per ogni serbo ucciso, moriranno cento musulmani”. Le parole sono importanti.

Tanti ne aveva l’attuale premier serbo negli anni feroci della guerra nella ex-Jugoslavia, ma era già un militante politico, vicino a quel Voijslav Seselj, cialtrone ultranazionalista serbo, tradotto davanti al Tribunale Penale Internazionale per i crimini nella ex-Jugoslavia e rientrato poi in Serbia il 12 ottobre 2014 per motivi di salute dopo 11 anni e 8 mesi di processo senza arrivare ad una condanna.

Oggi Vucic dice cose differenti, ha tenuto un profilo basso anche dopo la dura contestazione subita quando si è presentato al memoriale di Potocari (inaugurato nel 2003), dove ogni anno si inumano le salme che si è riusciti a identificare. Sono le vittime di Srebrenica, il buco nero dell’Europa del Secondo dopoguerra. Si dovrà arrivare a 8372. Massacrati in poco più di ventiquattro ore.

Il ventennale ha riacceso l’attenzione verso un dramma che ormai viene ricordato solo nelle cerimonie dell’anniversario. E la rabbia dei contestatori verso Vucic si spiega con il passato di quest’ultimo. Peccato, però. Perché sarà l’ennesima occasione per fare titoli sulla ‘ferocia’ balcanica, sull’odio ‘etnico’ sempre pronto ad esplodere.

Nessuno dirà che nel 2010, l’allora presidente serbo Boris Tadic aveva partecipato per la prima volta alla manifestazione senza che nessuno gli dicesse niente. Chi ha avuto la ventura di esserci, come il sottoscritto, a pochi passi da lui, ne coglieva la tensione. Una sorta di solitudine. Ma anche il coraggio, sotto un sole cocente, di guardare in faccia le persone che erano state costrette ad odiarsi.

Nessuno dirà che Vucic, prima di finire sotto il tiro di pietre e bottiglie, era stato fermato da una donna, Hatidza Mehmedovic, una delle madri di Srebrenica. Lo ha fermato per appuntargli al petto una spilla, il ‘fiore di Srebrenica’, che ricorda le vittime e chiede giustizia. Hatidza oggi vive sola: nella strage ha perso il marito, i due figli e decine di parenti. Lo ha fatto con una dignità silenziosa ma feroce.

Gli ha piantato, vicino al cuore, il suo dolore. Perché non ha più i suoi cari, ma non ha neanche giustizia. E questo gesto è più forte di mille oggetti lanciati contro suv con i vetri oscurati.

Come è importante che dopo venti anni, un’inchiesta dell’Observer scriva che sulla base di alcuni documenti declassificati emergono gravissime responsabilità di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e delle stesse Nazioni Unite che in nome della realpolitik di fatto preferirono sacrificare, o quanto meno non impedire il massacro di Srebrenica.

Il tutto pur di raggiungere un accordo con i serbi. Come avvenne puntualmente 4 mesi dopo, a novembre del 1995, a Dayton in Ohio, e poi il 14 dicembre a Parigi, ponendo fine a 3 anni e mezzo di guerra in Bosnia. Fornendo ai carnefici di Srebrenica anche la benzina per i camion con cui vennero trasportate le vittime.

E allora, anche il ventennale, diventa una cerimonia vuota. Andrebbero strette le mani di Hatidza, per chiederle scusa. Perché alle vittime di cui ancora mancano le spoglie, sparse nelle fosse comuni, va aggiunta la coerenza.

Ecco, Hatidza, ci vorrebbero milioni di mani come le tue. Per appuntare sul petto di questi leader il ‘fiore della coerenza’. Un fiore universale, che ricordi Srebrenica e Aleppo, Kobane e Mosul, l’Ucraina e lo Yemen. Perché prima o poi verranno nuovi leader a commemorare stragi. Sarebbe bello accoglierli con un fitto lancio di fiori.

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