Pensioni, vent’anni dopo

Nel 1995 la “riforma Dini” cambiava il sistema previdenziale italiano. Secondo l’Istat, l’89,6% delle pensioni erogate ricade nella fascia che va dai 2.000 euro in giù. I grossi vitalizi sono nelle mani del restante 10,4% degli italiani. Il nodo è l’equità di un sistema che ha due gambe stanche: “Età di accesso al pensionamento molto elevate -come riassume il professor Matteo Jessoula- e ridottissima capacità distributiva”. Precarietà, crollo del Pil e diseguaglianze impongono un ripensamento

di Antonio Marafioti, tratto da Altreconomia

“Il nuovo servizio consente di simulare il futuro trattamento pensionistico”. Una voce elettronica dall’altro lato della cornetta, è la sede Inps di Roma, accompagna il contribuente dentro la nuova frontiera del sistema pensionistico italiano. “La mia pensione”, l’operazione trasparenza voluta dal numero uno dell’Istituto nazionale di previdenza sociale, Tito Boeri, consente ai lavoratori dipendenti con una posizione previdenziale aperta, di conoscere in anticipo il futuro importo della propria quiescenza. Un’operazione non semplice, ma alla quale possono accedere i 12 milioni di lavoratori iscritti alle liste del Fondo pensionistico lavoratori dipendenti (Fplp).

Nel 2015 il totale delle pensioni vigenti dell’Inps, ovvero quelle che hanno avuto origine dal versamento di contributi previdenziali (vecchiaia, invalidità e superstiti), durante l’attività lavorativa del pensionato, ammontano a 18.044.221.

La percentuale di questo numero a carico del Fpld-Inps è del 50,4% ovvero 9.094.510 pensioni, per un importo medio mensile che si attesta sui 1.026,66 euro. Il dato rilevante è che nel 2004 le pensioni Fpld erano 10.102.496, circa un milione in più rispetto a quelle attuali, il che dimostra che è diminuita la quantità di contributi versati da parte dei lavoratori dipendenti e, quindi, il numero stesso di questi lavoratori.

E a vent’anni dalla riforma Dini, legge 335 del 1995, che ha sancito il passaggio dal sistema di calcolo retributivo a quello contributivo, le considerazioni sul mantenimento dell’equità sociale che tale trasformazione ha comportato partono necessariamente dalla parola “lavoro”. Perché è vero che calcolare la propria pensione in base alla media degli ultimi stipendi percepiti, metodo retributivo, è più vantaggioso che farlo rispetto al monte dei contributi versati durante tutta la vita lavorativa, contributivo, ma è anche vero che se non c’è lavoro, o quel lavoro cambia fisionomia al ribasso, il monte contributi scade, o si annulla, comunque. Questa la tesi di Roberto Artoni, 73 anni, ordinario di Scienza delle finanze all’Università “Luigi Bocconi” di Milano. “Il sistema Dini è stato concepito immaginando che il prodotto interno lordo crescesse sempre, ma non è stato così. Contributivo e retributivo non sono poi così differenti se si ha una carriera regolare per la quale si inizia a lavorare a vent’anni e, dopo aver pagato i contributi, si va in pensione a 65. La domanda è: chi, oggi, ha un lavoro come lo avevamo noi a vent’anni? Se non si riforma il mercato del lavoro ogni speculazione sul sistema pensionistico è vana”. Per Angelo Marano, economista e dirigente pubblico, attualmente sindaco Inail, “se un Paese non riesce più a permettersi una contribuzione elevata oppure non riesce più ad assicurare carriere continuative e un alto tasso di occupazione, le prestazioni non saranno più adeguate a garantire che i pensionati una volta usciti dal lavoro riescano a mantenere, entro ragionevoli criteri, i loro standard di vita”.

L’incremento dell’occupazione “atipica” o “flessibile” (o precaria) ha contraddetto il modello. “Nel 1995 il mercato del lavoro aveva pochissima flessibilità e i contratti atipici erano praticamente sconosciuti: basti pensare che il primo intervento di effettiva flessibilizzazione del mercato del lavoro è arrivato nel ‘97 -spiega Matteo Jessoula, docente di Scienze sociali e politiche all’Università Statale di Milano e membro del comitato scientifico di Social Cohesion Days-. Social Cohesion Days è il progetto di Fondazione EasyCare sulla coesione sociale, che ha tra i propri pilastri proprio lo studio della questione pensionistica.
“La riforma Dini è stata cucita su un’economia e un modello di carriera che era ancora quello dell’epoca industriale: una carriera lunga, spesso ininterrotta per 35-40 anni fino al pensionamento. Queste condizioni di contesto non ci sono più e le decisioni di politica pensionistica di previdenza pubblica e complementare hanno seguito due percorsi diversi e, soprattutto sulla previdenza complementare, non si interviene più dal 2007, se si eccettuano le recenti misure del governo Renzi che rischiano di ridurre le risorse a disposizione del sistema di previdenza complementare”.

In Europa, l’Italia è il Paese che storicamente ha la spesa pensionistica più elevata, con una percentuale che, nel 2013, ha toccato il 16,7% del Pil (la media europea è dell’11,8%), con un incremento di quasi tre punti percentuali rispetto al 2001.

Tuttavia, secondo Artoni, “la spesa pensionistica non è esplosa, perché negli ultimi anni il Pil ha perso almeno 7 punti percentuali, mentre la percentuale di ultrasessantacinquenni nel periodo considerato è passata dal 18,7% della popolazione al 21,2%”. E della sostenibilità economico-finanziaria del sistema, secondo Jessoula, va dato atto alla riforma del 1995. “Dal punto di vista finanziario -spiega Marano- la spesa pensionistica non rappresenta più un problema. Per far funzionare il sistema contributivo, però, c’è bisogno di offire delle prestazioni adeguate alla popolazione. Per farlo, l’attuale sistema richiede una contribuzione lunga, continuativa e aliquote contributive elevate. Per i dipendenti è il 33% per le altre categorie è inferiore, anche se si tende a livellare le due percentuali”.

Ma fu nel nome del recupero delle risorse che intervenne il governo Monti, nel 2011, optando per una scelta radicale affidata al decreto legge 201, la cosiddetta legge Monti-Fornero, che innalzò l’età pensionabile e bloccò la perequazione delle pensioni, ovvero quel meccanismo che adegua i vitalizi al costo della vita.

All’inizio della primavera la Corte costituzionale ha “bocciato” la norma di non adeguamento prevista dall’articolo 24 del provvedimento. “Se si sterilizza l’indicizzazione dai 2mila euro in su, lordi s’imprime un vulnus a tutta la struttura -sostiene Artoni-. Se nel 2015 si va in pensione con duemila euro lordi, che saranno più o meno 1.800 euro netti, e poi la propria pensione non viene indicizzata ai prezzi correnti, ci si troverà nel 2020 con una quota pensionistica più bassa del valore reale. Attualmente ciò non rappresenta un problema perché l’inflazione è all’1%, ma supponiamo che un giorno dovesse arrivare al 9-10%, come è successo negli anni Settanta; in quel caso si avrebbe un depauperamento totale della fascia di popolazione che ha lavorato: insegnanti, impiegati e così via”. E lo spostamento in avanti del traguardo apre un altro problema: “Ci si avvia verso un modello nel quale il problema principale non è quello di avere una pensione modesta in termini di importo monetario -ragione Jessoula-, ma è quanti accederanno alla pensione, per quanto tempo rimarranno in pensione, e soprattutto come si distribuiranno questi anni di pensionamento tra le diverse fasce sociali. Se ci si immagina che si andrà in pensione a 70 anni bisogna valutare quanti anni in media i lavoratori a basso reddito e con lavori faticosi godranno di un effettivo pensionamento”.
Il nodo è l’equità di un sistema che ha due gambe stanche: “età di accesso al pensionamento molto elevate -come riassume Jessoula- e ridottissima capacità distributiva”.

Inoltre, la prova che quello che da molti è stato definito come il completamento della riforma Dini verso il contributivo non sia stato un provvedimento equo è duplice: l’innalzamento dell’età pensionabile di sei anni in sei anni, per le donne, e il blocco della perequazione. “La riforma Monti-Fornero -prosegue Artoni- ha non solo spostato di colpo la soglia dell’età pensionistica, ma ha anche annullato di fatto gli accordi fra datore di lavoro e lavoratore per accompagnare quest’ultimo rapidamente alla pensione e ha allungato i tempi di congedo di altri otto anni. Li hanno chiamati ‘esodati’, ma è gente che è rimasta senza pensione e senza retribuzione. Pura improvvisazione”. Per Marano “gli interventi sull’età di pensionamento che sono stati molto stringenti in relazione all’aumento dei requisiti non hanno nulla a che vedere con il disegno di un sistema contributivo che paradossalmente potrebbe consentire di andare in pensione anche a 40 anni, dal momento che con questo sistema si restituisce al lavoratore ciò che ha versato prima della pensione. Se si va in pensione troppo presto sì prenderà una pensione molto bassa. Nel 2011 c’è stata l’esigenza di fare cassa immediata e il blocco dei pensionamenti ha permesso di ottenere un risparmio immediato”.

Secondo l’Istat, l’89,6% delle pensioni erogate ricade nella fascia che va dai 2.000 euro in giù. I grossi vitalizi sono nelle mani del restante 10,4% degli italiani. Per questo sono in molti a ritenere che il blocco della perequazione debba essere circoscritta a questa élite.

“A livello macroeconomico il blocco delle indicizzazione non sarebbe significativa. Siamo tutti d’accordo sull’indicizzazione al 75% per la parte eccedente tre volte il minimo. Ciò che si contesta è che si recupererebbe solo un miliardo all’anno. Troppo poco. Una riforma seria dovrebbe portare al risultato che le persone non facciano la fame quando vanno in pensione e che abbiano un tasso di sostituzione adeguato, pari a circa il 70% dell’ultima retribuzione. Ovviamente questo discorso regge per le pensioni normali, non per chi guadagna milioni ogni anno. L’assegno sociale non può essere così basso (458 euro al mese). Occorrono meccanismi di compensazione che bilancino l’equa distribuzione con il rispetto dei diritti acquisiti da coloro che durante la carriera sono cresciuti: penso al caso dell’operaio che chiude la carriera da dirigente. Da noi consideriamo tutta la vita lavorativa per calcolare la pensione, mentre in Francia e Stati Uniti contano solamente i migliori 25 e 35 anni di lavoro; così, se si è stati disoccupati solo cinque anni, non si è penalizzati. In Italia al momento non si tiene conto dei periodi di studio, malattia e disoccupazione. Per esempio in Svizzera riconoscono una contribuzione figurativa a carico dello Stato”. Anche per il professor Marano la soluzione del blocco perequativo dev’essere mediata: “Se si considera -dice- che questa sterilizzazione è differenziata in base ai livelli pensionistici, si ha un grosso effetto di livellamento delle pensioni che, sostanzialmente, fa convergere tutti sulla soglia più bassa. E questo comporta un sistema pensionistico che redistribuisce di più, ma non adempie la funzione del mantenimento dello standard di vita. Dipende sempre da che cosa si vuole fare: redistribuire o permettere a ciascuno il mantenimento del proprio standard di vita. Bisognerebbe fare sia l’uno sia l’altro entro certi limiti”.

Un altro nodo è quello delle pensioni complementari che i gestori vorrebbero obbligatorie. Secondo Mefop, società per lo sviluppo del Mercato fondi pensione partecipata dal ministero dell’Economia, sono circa 6,5 milioni gli italiani che hanno attivato una polizza integrativa.

Il 28% dei quasi 23 milioni di lavoratori nel nostro Paese. “Questi strumenti finiscono per avvantaggiare i più ricchi grazie alla deduzione sull’imponibile che è molto discriminante”, sostiene Artoni. “Il progetto lanciato negli anni Novanta -dice Jessoula- con il quale si immaginava che il pensionato del futuro potesse utilizzare la pensione pubblica insieme a un sistema di previdenza complementare ad adesione volontaria, ad oggi è fallito. Questo non vuol dire che la previdenza complementare non possa giocare un ruolo, ma bisogna ripensarla”.
Lavoro, Pil ed equità. A vent’anni dalla riforma Dini sono questi gli elementi che -cambiando al ribasso i propri connotati, o addirittura perdendoli- rischiano di compromettere il sistema pensionistico. Sul quale è giunto il tempo di riflettere. Del resto “Vent’anni sono un’era geologica per un sistema pensionistico -come spiega in conclusione Jessoula-. È tempo di valutare con calma e attenzione le riforme di questi due decenni, il sistema richiede un ripensamento profondo, non ulteriori interventi parziali e spesso emergenziali, che deve riguardare sia la previdenza pubblica sia la previdenza complementare, e soprattutto i punti di contatto, l’interazione, fra le due”.

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