Due inverni / 7

8/09/1943 – 10/07/1945   Racconto-reportage a puntate

 

di Carlo Ruggiero

 

Questa è la storia della mia famiglia. O meglio, è un pezzo di storia di una parte della mia famiglia. E’ la storia di mia madre, dei miei zii e dei miei nonni materni. Ed è una storia di profughi. Persone che sono sfuggite alla guerra e alla violenza. Gente a cui un giorno la Storia (stavolta con la S maiuscola) ha deciso di bussare alla porta di casa. Poi si è portata via la casa. Dopo un po’, s’è portata via anche tutto il resto. Questa è la storia di due adulti, una ragazzina e tre bambini che hanno viaggiato a lungo, che hanno patito la fame e il freddo. Persone che hanno guardato la morte in faccia più volte, che sono state colpite, rinchiuse, umiliate. No, non sono somalo, non sono siriano, non sono afghano. Non sono nemmeno curdo. Non vengo da qualche paese esotico e lontano. Sono un italiano qualsiasi, e lo era anche la mia famiglia. Erano di Coreno Ausonio, un paesino di poche anime arroccato sui monti Aurunci, neanche 150 chilometri a sud di Roma. Per circa settant’anni questi fatti sono rimasti sepolti sotto due dita di polvere, annacquati nel chiacchiericcio quotidiano. Poi ho deciso di tirarli fuori, e per farlo ho iniziato a scavare. Quando si scava, però, di solito si suda, ci si sporca le mani. E c’è sempre il rischio di graffiarsi. La verità è che la Storia (ancora un volta con la S maiuscola) si ripete sempre due volte. La prima come tragedia, la seconda pure.

Leggi le puntate precedenti:

#1 PROFUGHI VERSO IL NORD
#2 CARAMELLE DI GROSSO CALIBRO
#3 SEPOLCRI BIANCHI
#4 LO STESSO UOMO
#5 UNA MANCIATA DI CHILOMETRI
#6 GIONA SENZA LA BALENA

 

#7 TERRA PIATTA

 

La terra è piatta. Un cielo di piombo pesa come un macigno sulla campagna levigata. Dalla foschia spuntano soltanto campanili a punta, alberi sottili, cascine, tralicci e ripetitori telefonici. Per il resto, solo campi, strade sterrate, sterpaglie e pioggia. Per chilometri e chilometri. Mi chiedo cosa devono aver pensato i miei la prima volta che hanno messo piede da queste parti. Loro che per tutta la vita avevano avuto sbattuto in faccia quel panorama scombinato. Da una parte i monti Aurunci, che da Coreno sembrano alti e pietrosi come le Dolomiti. Dall’altra, una collina che si tuffa a strapiombo nella vallata, terra sbattuta dal sole, e poi il mare. Se glielo chiedi, Zia Argentina ricorda solo il lungo inverno che ha passato qui. Il freddo che torceva le ossa sotto vestiti troppo leggeri, e la nebbia tanto spessa da poterla affettare. Zio Giona era solo un bambino, mia madre ancora non c’era, gli altri non possono più raccontarlo.

Lacchiarella, 2015

In ogni caso, per arrivare a Lacchiarella da Milano bisogna imboccare l’autostrada in direzione Genova, prendere l’uscita per Binasco, schivare grossi camion con rimorchio e superare una grande rotatoria. Oppure percorrere senza fretta la provinciale, che costeggia il naviglio pavese, prima di farsi largo tra terra smossa, frazioni di poche case e nient’altro. Sarà per il tempo pessimo, ma in giro non c’è quasi nessuno. I pochi coraggiosi corrono da un edificio all’altro con ombrelli e buste della spesa strette in mano. Ci sono un mucchio di scivoli e altalene colorate, ma neanche l’ombra di un bambino. Lacchiarella è un grazioso paesino di case basse, in cui tutto sembra nuovo di zecca. Neanche un po’ di intonaco scrostato sulle pareti dai colori pastello, nemmeno una cicca di sigaretta sui marciapiedi. La grande città, l’Expo, i negozi, il traffico, i giovani barbuti con le pieghe dei pantaloni alle caviglie sono a nemmeno venti chilometri, ma sembrano lontani anni luce. Alcune facciate sfoggiano dipinti murali di soggetto bucolico e decorazioni floreali appena sotto le grondaie. Intorno al canale tutto è curato e pulito, ma anche nei bar c’è poca gente. Una cassiera annoiata, un paio di anziani a leggere le notizie sportive, un giovanotto ipnotizzato da una macchinetta mangiasoldi. Vago per un po’, incuriosito. Non vedo nemmeno un migrante in giro. Secondo i dati più recenti, in paese vivono più o meno settecento stranieri su ottomilaseicento residenti. Circa la metà sono cinesi, albanesi e rumeni. I rifugiati politici saranno solo una manciata. Cammino ancora, ma non ci vuole poi molto a trovare quello che cerco. Eccolo davanti a me, quello che Zia Argentina chiama ancora “il castello”. L’ultima tappa del mio viaggio.

La Rocca viscontea di Lacchiarella è un edificio medievale di mattoni rossi. È squadrata e imponente. Si alza al centro del paese, e domina Piazza Risorgimento. Vicino ci sono anche un monumento ai caduti, il municipio, una chiesetta, altri palazzetti signorili, ma io nemmeno me ne accorgo. Io passo oltre come un automa, nella mente un solo obiettivo: i merli della foto che mi porto in tasca. Sposto l’ombrello, alzo gli occhi. La pioggia mi pizzica la faccia, mi bagno i capelli e gli occhiali. Non li trovo. Dove avevo immaginato che fossero c’è una fila di alte finestre ad arco che s’allunga sotto un tetto di tegole scure. Allora mi faccio coraggio ed entro dalla porta principale. Guardo l’orologio, sono in orario. Salgo al secondo piano, accarezzando il corrimano in ferro battuto e buttando un occhio alle travi in acciaio scuro sotto soffitto. Brunello Maggiani mi accoglie nella sua stanza. E’ un signore distinto di una certa età, gentilissimo nei modi, mi regala un sorriso sereno. E’ il presidente della Proloco, ed è anche uno storico locale.

– Durante la guerra qui c’era un comando tedesco, e un reparto di contraerea – racconta – i soldati erano corretti e disciplinati. Ma il lavoro sporco lo facevano fare alle Brigate nere. Il 31 luglio 1944 hanno fucilato cinque sbandati a Casirate Olona, davanti al forno comunale. Bombe non ne sono cadute mai, ma il 31 gennaio del ’45 gli inglesi mitragliarono una corriera che portava gli studenti a Milano. Ci furono 81 morti in località Badile…

Brunello sa tutto della storia di questo paese. Ha anche scritto diversi opuscoli sul tema. Le copertine sono tutte su una parete, in bella mostra sotto teche di vetro. Prima di portarmi sulla terrazza mi elenca le storie dei personaggi illustri di Lacchiarella. Si appassiona mentre racconta di Francesco Cellario, pastore protestante morto sul rogo dell’Inquisizione, e del medico garibaldino Federico Tessera, uno dei Mille. Poi mi spiega con dovizia di dettagli chi erano Giuseppina Pozzi, eroina delle Cinque giornate di Milano, e Giovanni Bargiggia, Vescovo di Caltagirone e di Vigevano. Fino ad arrivare ad Angelo Pavese, partigiano ucciso a Scutari mentre combatteva per la liberazione dell’Albania.

– L’ultima lettera di Pavese, scritta solo cinque minuti prima di essere fucilato dai nazisti, è affissa davanti al Comune. La vada a vedere…

Ci andrò. E scoprirò che le vite di queste persone hanno lasciato tracce indelebili disseminate per tutto il territorio comunale, come in una specie di caccia al tesoro della memoria. Del passaggio della mia mia famiglia, invece, non è rimasto nulla. L’unica prova tangibile è la foto che mi porto appresso. Prima del mio arrivo, Brunello ha anche chiesto ai più anziani se sapessero qualcosa di certi profughi di Montecassino, ma è stato l’ennesimo buco nell’acqua.

– Durante la guerra sono arrivati in parecchi. La maggior parte venivano da Milano per sfuggire ai bombardamenti alleati. Altri invece venivano dal sud. Per accogliere i profughi è stata utilizzata prima la scuola elementare, poi la Rocca.

L’edificio nel quale ci troviamo, però, ormai non è più lo stesso. Il primo restauro è stato messo in atto nei primi anni ’50, mentre gli ultimi lavori si sono conclusi solo nel 2003. Oggi la Rocca ospita la biblioteca, il consiglio comunale, alcune sale di rappresentanza, un salone dove si celebrano i matrimoni civili, oltre a diversi uffici.

Finalmente Brunello mi indica la via per la terrazza. Saliamo un’altra rampa di scale e superiamo un cancello. Arriviamo al terzo piano, attraverso una porta a vetri sbuchiamo in uno stretto passaggio.

– La foto che mi ha fatto vedere probabilmente è stata scattata qui.

Lo guardo un po’ perplesso. Poi do un’occhiata in giro. Da un lato pareti di cartongesso bianche e ampie vetrate, all’interno persone sedute davanti ai computer. Siamo in uno stretto passaggio, il cosiddetto “cammino di ronda”. Dall’altro lato c’è muro perimetrale di mattoni rossi con le finestre ad arco che vedevo dalla piazza. Sono senza infissi, ma hanno messo un rete per evitare che i piccioni possano entrare a far danno. In alto c’è il tetto di legno con le travi a vista.

 

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– E’ un po’ diverso, vero? I merli non ci sono più – mi fa Brunello, un po’ deluso anche lui -. Però il panorama è lo stesso, il centro di Lacchiarella è rimasto praticamente identico.

Tiro fuori la foto. Cerco il punto esatto in cui è stata scattata. Provo a poggiarla su una finestra, non è quella. Ne provo un’altra, niente da fare. Percorro tutto il corridoio con la fotografia in mano. Alla fine trovo quello che cerco. Eccoli i tetti ricoperti da file ordinate di tegole, la foschia, il cielo livido. Settant’anni fa, la mia famiglia di profughi era esattamente qui. In posa, rigidi, in attesa dello scatto. Sotto i piedi adesso ho lo stesso pavimento, negli occhi lo stesso sguardo, le stesse case, la stessa terra piatta.
Lacchiarella, 1945 – 2015

Ha ragione Brunello, da qui si vede tutto il paese. In fondo alla via c’è la palazzina gialla delle poste. All’epoca era la scuola elementare. Giovanna e i suoi figli hanno passato lì dentro i loro primi quattro mesi qui. Proprio da una di quelle finestre mia nonna vide arrivare suo marito in una calda giornata di agosto. Era Gaspare, lo riconobbe subito. Non era stato fucilato, aveva mantenuto la promessa fatta a Coreno. Ebbe un mancamento. Qualche tempo dopo si spostarono nella Rocca, finalmente in una stanza tutta per loro. E’ da qui che mio nonno usciva tutte le mattine per andare a prendere la corriera per Milano. Scendeva a Porta Genova con tutti gli altri, poi andava spedito all’Ente Profughi, dove aveva trovato lavoro come tuttofare. Tornava solo al calar del sole, con la corsa della sera. Proprio a Milano la Storia (sempre con la S maiuscola) aveva bussato ancora alla sua porta. Il 16 dicembre 1944, in un Teatro Lirico gremito in ogni ordine di posti, fu testimone dell’ultimo discorso pubblico di Mussolini. Da una delle ultime file ascoltò il Duce arringare i “cari camerati milanesi”, per spronarli a “serrare i ranghi per riprendere a marciare, onde riconquistare quanto fu perduto”. Neanche cinque mesi dopo, mio nonno sarà pure a Piazzale Loreto. E vedrà il corpo di quello stesso uomo appeso a testa in giù, oltraggiato da una folla stavolta inferocita.

Mi guardo intorno, mi affaccio sulla piazzetta. Provo a osservarla con gli stessi occhi sognanti con cui Zia Argentina guardava le giovani del paese danzare con gli ufficiali tedeschi nelle sere d’estate. Le stesse ragazze, dopo la Liberazione, le vedrà passare furtive da una parte all’altra del paese con i fazzolettoni a coprire il cranio rasato. La punizione minima per chi aveva collaborato col nemico. Sulla strada che attraversa la piazza, il 25 aprile, Nonna Giovanna vide passare i partigiani acclamati da due ali di folla. Non capì esattamente cosa stesse succedendo, né cosa si stesse festeggiando, ma tirò via dalla finestra Zia Linda prima di chiudersi gli scuri alle spalle. Quella sera, l’esercito tedesco in ritirata verso Pavia percorrerà la stessa strada, ma coi mitra in pugno, sparando alla cieca. Nonno Gaspare rischierà di essere colpito di nuovo, ma se la caverà per l’ennesima volta.

Alzo lo sguardo. Oltre le ultime case ci sono i campi. Brunello mi ha detto che a quel tempo erano tutte risaie. Lì mia zia Giglia è stata per un po’ una giovanissima mondina. Ora mi pare quasi di vederla: imbronciata, china accanto alle altre, con un cappello di paglia in testa, i pantaloni corti, l’acqua fino alle ginocchia e le calze a mezza coscia. Mi volto ancora, cerco di immaginare come potesse essere la terrazza nel 1944. Su questi lastroni mio zio Giona ha imparato a camminare. Chissà quante volte avrà trotterellato con le braccine protese in avanti, schivando i muretti, ridendo sdentato, per poi tuffarsi sicuro nelle braccia dei suoi genitori.

 

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Brunello mi sorride di nuovo, scendiamo le scale in silenzio. Lo saluto, lo ringrazio, esco. Prima di ripartire, mi volto per l’ultima volta verso la Rocca.

Lì dentro è stata concepita mia madre.

Finalmente lo so perché sono arrivato fino a qui. Perché, in fin dei conti, questo posto è anche un po’ mio. Quando ripartirono, il 12 giugno del 1945, Nonna Giovanna era incinta di otto mesi. La mia famiglia ha attraversato di nuovo l’Italia in rovina sul rimorchio di un camion militare. Arriveranno due giorni dopo, e al posto della loro casa troveranno un cumulo di macerie. Mia madre nascerà dopo nemmeno un mese, il 10 luglio 1945. La chiameranno Maria. Salgo in macchina, ripercorro la strada che costeggia il naviglio in direzione Milano. Da lì prenderò un un treno per Roma. Il mio viaggio ora è finito per davvero, torno a casa.

No, non sono somalo, non sono siriano, non sono afghano. Non sono nemmeno curdo. Non vengo da qualche paese esotico e lontano. Sono un italiano qualsiasi. E sono figlio di profughi.

Giona e Maria tra le macerie di Coreno, 1947