La fine della Guerra Fredda

Oggi, di nuovo, si sta riscrivendo la storia futura del continente americano

di Alfredo Somoza

Oggi 20 luglio 2015 è finita la Guerra Fredda. L’alzabandiera a L’Avana della stars and stripes, e a Washington della estrella solitaria chiude simbolicamente, ai tempi supplementari, la geopolitica della seconda metà del ‘900. Nessuno ha vinto né perso, nel senso che questa regolarizzazione di relazioni diplomatiche non avviene dopo il cambio di regime in un paese. I protagonisti politici da parte cubana sono addirittura gli stessi che fronteggiarono gli Stati Uniti per decenni.

Il bilancio, dal punto di vista politico, pende a favore dei fratelli Castro: sono gli Stati Uniti che hanno tolto l’embargo riconoscendo di avere sbagliato politica nei confronti dell’isola fin dal 1963.

Un embargo con modesti effetti pratici, visto che il resto del mondo (prima l’URSS e poi l’Europa) continuò ad avere regolari rapporti commerciali con Cuba, ma che offrì al governo cubano il più grande alibi per mantenere alto il livello di consensi.

L’ideologia profonda di Fidel, quella nazionalista di matrice martiniana, è molto diffusa tra i cubani che si considerano, a ragione, maltrattati dalla storia. La Cuba di oggi non è esattamente quella degli anni ’80, e il passaggio di consegne tra Fidel, l’ortodosso, e Raul, il cinese, si sente. Oggi Cuba punta a costruire un sistema misto privati-stato che da una parte possa garantire i fondamentali della rivoluzione, ma che permetta anche la moltiplicazione di opportunità per i privati, soprattutto se grandi imprese straniere. Un difficile compito, finora riuscito in un solo paese, la Cina, che non ha però tradizioni democratiche né si trova in Occidente.

È facile prevedere che le maggiori aperture economiche renderanno necessarie le aperture politiche. Finché un Castro governerà il paese, il regime socialista a partito unico non tramonterà, ma con buona probabilità i cambiamenti inizieranno dal basso, dai meccanismi di scelta degli amministratori pubblici e successivamente nelle elezioni a parlamentari dell’Assemblea Nazionale, dove già erano entrati ultimamente personalità abbastanza “indipendenti”.

La transizione per ora sta funzionando, smentendo le profezie di crolli più o meno rovinosi. Ed è per questo che negli Stati Uniti le lobby economiche hanno fatto pressione, per la prima volta all’unisono, per porre fine alla legge che impediva loro di fare affari con l’isola.

Per gli Usa, Cuba è una grande opportunità, come lo è stato prima della rivoluzione e in prospettiva un’importante alleato nei Caraibi. Un Mare Nostrum statunitense sempre più problematico, dal disastro haitiano al default di Porto Rico.

Cuba è anche strategica per il Vaticano come dimostra la mediazione iniziata da Papa Wojtyla, portata avanti da Papa Ratzinger e conclusa da Papa Bergoglio. Il perché di questa attenzione particolare è presto detto: per il Vaticano, l’isola caraibica è una piattaforma importantissima per il recupero di fedeli nel suo più grande serbatoio, l’America. È qui, dunque, che si gioca il futuro della chiesa di Roma e gli equilibri politici di una Chiesa che si è appena data un papa latinoamericano. Il vero senso dell’interesse degli ultimi tre Papi per Cuba va interpretato alla luce di alcuni fatti: nell’isola di Castro la rivoluzione non ha mai perseguitato la Chiesa cattolica, l’unico vero divieto ha riguardato le religioni provenienti dagli Stati Uniti. Ecco perché Cuba è oggi, paradossalmente, il Paese più cattolico del continente, e proprio da qui il Vaticano conta di ripartire con una nuova evangelizzazione.

I Caraibi sono stati a lungo al centro del mondo, durante i lunghi secoli del colonialismo e nella seconda metà del ‘900. Oggi di nuovo qui si sta riscrivendo la storia futura del continente americano.

Come sarà la conclusione di questo processo è ancora difficile da immaginare, ma il patrimonio più importante di Cuba per costruire il suo futuro è la sua gente. Quel capitale umano formato, temprato dalle difficoltà, esperto nell’arte di arrangiarsi, che non ha mai rinunciato a fare musica, a scrivere, a studiare e a discutere. La Cuba post-rivoluzionaria potrebbe essere, per quei corsi e ricorsi della storia, uno dei migliori alleati degli Stati Uniti e tornare alla guida dei Caraibi come gli spetta di diritto. La Cuba della nostalgia sta esaurendo i suoi ultimi giorni, ma quella del futuro potrebbe stupirci.