Europa, per una famiglia umana

A pochi giorni dalla sentenza di Strasburgo che impone all’Italia di riconoscere le coppie omosessuali, un’analisi delle dinamiche psico-sociali ed antropologiche sottese al dibattito sui diritti delle persone LGBT affrontato all’interno del complesso volume “La famiglia omogenitoriale in Europa” e un tour emotivo/visivo, attraverso il recente Napoli Pride, dell’artista Massimo Pastore.

di Simona Chiapparo

“È il medico dell’ospedale dove ha subito un cesareo a darle la notizia: Mentre ti operavo, ho trovato un bel pasticcio. Mentre estraevo il bambino, ho mandato a chiamare il primario, e abbiamo tenuto un consulto … con te distesa … ehm, disteso sul tavolo operatorio … e abbiamo lavorato per ore, nel tentativo di salvare il salvabile. Tu avevi due completi apparati di organi, entrambi immaturi, ma quello femminile era abbastanza sviluppato da farti avere la bambina. Non ti sarebbe più stato utile, così lo estraemmo e sistemammo le cose in modo tale da farti sviluppare come un uomo, nel pieno significato della parola’. Mi mise una mano sulla spalla. ‘Non preoccuparti. Sei giovane, le tue ossa ritorneranno a posto, sorveglieremo il tuo sistema ghiandolare … e faremo di te un ragazzo in gamba”. Il racconto All you zombies (1959) di Robert A. Heinlein, recentemente trasposto in chiave filmica dai fratelli gemelli Michael e Peter Spierig, riesce a rappresentare – in termini emotivi – le difficoltà della fuga verso l’identità, quando la dimensione individuale del soggetto incontra la sfera pubblica della società (o dello stato). Perché questo incontro inevitabilmente diviene uno scontro tra un processo psico-affettivo intimo e un apparato legislativo che pretende di normare lo sviluppo identitario della persona e le sue scelte relazionali.

A questo incontro tra diritto della persona e legge di stato è dedicato il ricco volume “La famiglia omogenitoriale in Europa. Diritti di cittadinanza e libera circolazione” a cura di Alexander Schuster e Maria Gigliola Toniollo, realizzato da Ediesse, nell’ambito del progetto europeo “Rights on the Move-Raibow Families in Europe.

Un volume da rileggere con attenzione, alla luce della sentenza diffusa il 21 Luglio 2015, con cui la Corte Europea dei diritti umani (CEDU) ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 8 della Convenzione CEDU sul «diritto al rispetto della propria vita privata e familiare», in merito al ricorso di tre coppie omosessuali, dopo il rifiuto da queste ricevuto dai rispettivi Comuni della richiesta di pubblicazione delle proprie unioni. Mentre esponenti del governo italiano si affrettano a dichiarare che sarà celermente approvato il disegno di legge sulle unioni civili occorre interrogarsi sulle dinamiche psico-sociali scatenate da tale tematica, partendo da quanto accaduto in Francia all’epoca dell’approvazione dei PACS.

Come delineato in uno dei capitoli del libro, la società francese fu scossa (lo è tuttora) da una violenta reazione, in occasione dell’approvazione del Patto Civile di Solidarietà, con cui si legiferava sul riconoscimento delle coppie omosessuali.

Una reazione decisamente spropositata rispetto a quanto accaduto in altre società, anche a forte matrice cattolica come la Spagna, in risposta a provvedimenti giuridici similari. La reazione francese (e potremmo dire anche italiana) viene descritta nel libro quale esempio di “panico morale” . Ossia una deriva d’ansia – come originariamente descritto dal sociologo britannico Stanley Cohen – scatenata nella collettività dai media che paventano ed esasperano inesistenti rischi, sottesi a cambiamenti sociali inevitabili, quali il riconoscimento civile delle convivenze omosessuali.
Fu il panico morale, un dispositivo di autocontrollo sociale fondato sull’inerzia, a generare movimenti come Manif pour tous, tra i più accesi delatori dei PACS. La medesima inerzia che inconsciamente agiva nella sinistra socialista francese che provava, in quegli anni, ad innescare un dibattito illuminista su questioni sociali quali l’omogenitorialità e l’identità di genere, a partire dalle posizioni reazionarie di intellettuali conservatori. Posizioni che mistificavano tutto il pensiero sulla différence sexuelle di Luce Irigaray chiedendo di “preservare la differenza dei sessi nel matrimonio” o che, addirittura adulteravano Histoire de la sexualité di Michel Foucault, affermando provocatoriamente che la richiesta delle comunità omosessuali di veder riconosciute le proprie relazioni era una sorta di propensione all’auto-addomesticamento della propria sessualità.

Fotogallery: ©Pastore, Napoli Pride 2015

Dinamiche di quel “tradizionalismo divenuto inconsapevole” – si spiega nel volume “La famiglia omogenitoriale in Europa” – che tentano una strenua resistenza di passività di fronte all’emergere di nuovi bisogni che non rappresentano alcun rischio per la società, come la naturale necessità di due esseri umani che, al di là del proprio sesso, chiedono che sia socialmente accettata la propria relazione. Una richiesta di consenso sociale che ha motivazioni contingenti, quali l’opportunità di essere tutelati da discriminazioni in ambito lavorativo, economico e sanitario, come ampiamente descritto nei capitoli del libro dedicati alle questioni su welfare e omosessualità.

La percezione di un pericolo sociale, insito nell’esistenza della famiglia genitoriale, innesca il proliferare di aggregazioni reazionarie a cui il diritto internazionale prova a rispondere con i Principi di Yogyakarta sulla tutela dei diritti umani delle persone LGBT che, tuttavia, ancora stentano a tutelare la realtà quotidiana delle coppie e delle famiglie omosessuali che, ogni giorno, devono difendersi da chi nega loro il congedo matrimoniale o le informazioni sulla salute del partner. Eppure, all’interno di questo documento internazionale – si descrive nel capitolo dedicato – alcuni contenuti, quali quelli del Principio 24, invocano diritti per le persone LGBT, a cui tutti gli stati dovrebbero con naturalezza attenersi, ossia il diritto a formare una famiglia.

Dunque, risulta davvero paradossale la querelle giuridica e pubblica su questa che è di fatto un’istanza intrinseca ad ogni essere umano.

Tanto più in un mondo della globalizzazione (spesso soltanto superficiale) delle tutele: si pensi alle mobilitazioni periodiche contro il consumo di cibi animali in occasioni ritualistiche, quando si stenta ad accordare un diritto fondamentale: la libertà di scegliere chi amare e con cui formare famiglia.
Libertà che prescinde da dibattiti indubbiamente complessi, quali le modalità di accesso alla medicina riproduttiva da parte delle coppie omosessuali e che potrebbe piuttosto essere occasione per la tutela di un altro fondamentale diritto.
Il diritto di ogni bambino ad avere una famiglia, dall’approvazione della step child adoption, ossia lo strumento giuridico di matrice anglossassone che riconosce – a chi sia in una convivenza registrata – l’adozione dei figli biologici o adottivi del partner del medesimo sesso. Alla possibilità di rivitalizzare l’istituto dell’adozione nazionale – ad oggi esangue, anche per la lobby delle strutture di accoglienza – consentendo anche alle coppie omosessuali di accogliere minori italiani fuori famiglia.

A tali questioni si dedica estesamente il libro “La famiglia omogenitoriale in Europa”, così come non manca di affrontare tematiche ancor più stringenti nelle loro qualità biopolitica. Come “il diritto delle coppie dello stesso sesso di vivere insieme al di là delle frontiere” o l’ancor più emblematica vicenda dell’ermeneutica giuridica relativa all’art. I della legge 164/1982. Ossia se occorra interpretare la “condizione di generata sterilità” (tramite rimozione chirurgica degli organi genitali/riproduttivi interni) quale “presupposto necessario per disporre la riattribuzione del genere anagrafico” richiesta da persona trans che si sottoponga ad intervento di cambio del sesso.

Identità di genere e omogenitorialità sono declinazioni della insopprimibile aspirazione alla libertà, a partire dalla quale fondare la propria famiglia umana. Ma sono anche occasione di esprimere quell’amore, senza il quale a nulla serve il saper parlare “la lingua degli uomini e la lingua degli angeli” o il poter appellarsi a dichiarazioni di diritto internazionali.
Non riconoscere ad altri la libertà d’amore, in nome di dogmi religiosi o morali, significa innanzitutto negare a se stessi la propria umanità, rassegnandosi ad essere dei “bronzi risonanti” o, se si preferisce, dei zombie che camminano.

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