Senhuile-Senethanol la saga continua

In Senegal, l’azienda italiana Tampieri porta avanti un faticoso progetto agroalimentare tra accuse di land grabbing, lotte tra azionisti, rapporti complessi con la popolazione e raccolti scarsi

di Lorenzo Bagnoli

Sembrava essersi chiusa con un colpevole dietro le sbarre l’avventura dell’azienda italiana Tampieri di Faenza (Ravenna) in Senegal. E invece un anno dopo quel finale scritto in fretta e furia dalla holding italiana per chiudere le polemiche che hanno colpito la sua controllata in Senegal Senhuile non ha retto. Nell’aprile 2014 la Tampieri aveva licenziato con l’accusa di aver derubato la controllata Senhuile di 50 mila dollari il vecchio direttore generale, Benjamin Dummai, in passato condannato per frode fiscale in Brasile. Un accusa che al momento sembrava dare una spiegazione logica a tutti i ritardi e le inefficienze che stavano provocando il montare dell’opinione pubblica senegalese contro gli italiani.

La decisione era maturata anche dopo che il progetto Senhuile era stato messo alla berlina da un coordinamento di ong internazionali: l’accusa degli operatori era di land grabbing, di furto di terra.

Tampieri, insieme ai suoi partner locali di Senthanol, ha ricevuto nel marzo 2012 dal Governo senegalese una concessione ad uso gratuito per 20 mila ettari nella regione semidesertica dello Ndiael, al confine con la Mauritania, ma non ha mai coinvolto le popolazioni locali nel processo decisionale. Almeno questa è lìaccusa delle ong. E i frutti raccolti finora sono stati pochi, troppo pochi a fronte di un investimento comunicato dall’azienda di almeno 30 milioni di euro.

Il capo villaggio di Thiamene, Senegal, cammina in una tempesta di sabbia

Responsabile dei ritardi e della malagestione, per gli italiani, è sempre stato il vecchio dg, Benjamin Dummai.

E Tampieri, dopo la sua cacciata, ha preso le redini della gestione, inserendo da allora anche una responsabile sociale d’impresa, Maura Pazzi, incaricata di confrontarsi e relazionarsi con i locali.

A 15 mesi di distanza dallo scoppio del caso Dummai, l’associazione Re:Common, con la collaborazione dell’ong internazionale Grain e ad un’altra cordata di associazioni italiane e senegalesi, analizza di nuovo la situazione sul campo nel rapporto “Senegal, come si accaparra la terra”. Il conflitto con una parte delle popolazioni è rimasto e la guerra con Dummai dal Consiglio di amministrazione si è trasferita in Tribunale. E durerà a lungo.

Il conflitto societario

Benjamin Dummai, a seguito del licenziamento, ha passato in carcere 5 mesi perché sospettato del furto alle casse della Senhuile. Dummai è azionista di maggioranza di Senethanol, che all’epoca dell’incarcerazione pesava per il 49% della società Senhuile-Senethanol. È stato poi scarcerato per motivi di salute e a marzo 2015 ha presentato una contro denuncia con 14 capi d’imputazione. Contro denuncia che ancora Tampieri dice di non aver mai ricevuto.

Due le accuse più pesanti: riciclaggio di denaro sporco e aumento illegittimo di capitale.

La procura di Dakar indaga, ma su quest’ultimo punto sono già trapelate diverse versioni. Tampieri infatti dichiara di aver fatto passare il capitale sociale da 15 mila euro a 4,5 milioni di euro «come previsto dalla legge senegalese, per copertura delle perdite societarie» accumulate nei primi anni di esistenza del progetto. Solo che Dummai, nonostante sia socio, afferma di non essere mai stato convocato in nessuna assemblea straordinaria perché fosse ratificato l’aumento di capitale. A questo si aggiunge la voce dei lavoratori licenziati per motivi economici, che contestano l’operazione di Tampieri. Anche perché tra gli scopi del progetto ci sarebbe anche quello di creare occupazione, mentre finora la maggioranza degli impiegati senegalesi sono giornalieri. Nemmeno sul numero dei licenziati da Tampieri per motivi economici esiste una versione univoca: secondo la vertenza di un sindacato locale, sarebbero almeno 71, mentre per l’azienda sarebbero solo 12 le persone a restare senza lavoro, le uniche a non avere accettato la proposta di buona uscita.

Fatto sta che, con l’aumento di capitale, Tampieri financial group ad oggi dice di possedere l’82% di Senhuile, mentre a Senthanol è rimasto solo lo 0,15%. Il restante 17,85% è nelle mani di Gora Seck, socio in affari di Dummai (con una quota di minoranza in Senethanol) e poi suo acerrimo nemico. Imprenditore senegalese ben agganciato negli ambienti che contano, secondo la ricostruzione dei ricercatori di Re:Common sarebbe protetto da Harouna Dia, principale finanziatore del presidente senegalese Macky Sall e, pur non avendo ruoli nella macchina pubblica, suo vicino di ufficio al palazzo presidenziale.

Un uomo al villaggio di

L’obiettivo del progetto

Il ruolo prominente di Gora Seck e Harouna Dia nel progetto ha fatto scrivere alla stampa senegalese, riportano i ricercatori, che tra le opzioni sul tavolo ci sia anche la vendita della concessione dei 20 mila ettari ad imprese africane o statunitensi (di cui ancora non si conoscono i nomi) interessate all’acquisto. A maggior ragione qualora Senhuile, come pare, fosse titolare di un’altra licenza di altrettanti 20 mila ettari e ne avesse acquistata un’altra da 5 mila: terra che fa gola in un momento di stop alla vendita delle licenze.

Tampieri continua a insistere che il suo interesse nello Ndiael è agroalimentare e lo scopo è contribuire all’autosufficienza alimentare del Paese dell’Africa occidentale entro il 2017.

Il nuovo direttore generale Massimo Castellucci ha dichiarato di aver individuato i primi 10 mila ettari sui 20 mila a disposizione da sfruttare, e di averne messi a coltivazione duemila con riso, arachidi e mais. Lavori la cui paternità si intesta anche il vecchio dg Dummai. I raccolti sono cominciati a febbraio, ma i risultati fissati tra due anni dall’azienda (28 tonnellate per ettaro con il riso) paiono complicati da raggiungere, secondo i ricercatori. Il Collettivo dei 37 villaggi, entità che raggruppa i capi degli agglomerati inseriti nell’area del progetto ma che secondo Castellucci «esiste solo nei media», dice di non aver ricevuto granché e che i raccolti sono scarsi. All’inizio l’investimento cardine doveva essere il girasole, dei cui semi la Tampieri ha bisogno a Faenza per produrre energia. Poi il cambio di strategia e l’inizio dei contrasti.

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Il complicato rapporto con la popolazione

«Nonostante l’evidente volontà da parte della nuova equipe di differenziarsi dal passato – scrivono i ricercatori del report -, persistono quegli elementi che, deteriorando la possibilità per la popolazione locale di poter decidere autonomamente in merito al loro futuro sviluppo, hanno portato a definire l’investimento Senhuile come un caso di accaparramento di terra». Nonostante gli sforzi, secondo quanto emerge dalla ricerca c’è ancora una spaccatura tra le fazioni pro e contro il progetto.

Sono di nuovo i rappresentanti del Collettivo dei 37 villaggi a manifestare la loro contrarietà a Senhuile-Senethanol, in primis perché il progetto impedirebbe loro di svolgere la tradizionale (e unica via di sopravvivenza) attività di pastori. Non si sono smossi dalla posizione adottata fin dall’annuncio dell’installazione del nuovo progetto. All’accusa la società risponde con gli accordi siglati con le Comunità rurali di Ronkh e Gnith, i due enti con i quali si deve interfacciare per poter cominciare a coltivare, che hanno dato il via libera come richiesto dalla legge.

Un anno dopo l’inizio dell’operazione di Tampieri per recuperare l’immagine dell’azienda resta comunque una domanda: con una produzione agroalimentare e una relazione complicata con i locali, perché l’impresa insiste ancora? Eppure Tampieri è convinta che alla fine ci sarà profitto per tutti: per le sue casse e per la produzione alimentare africana. Un miraggio, al momento.