Io ci provo

Un pomeriggio in compagnia della regista Paola Leone e i detenuti del progetto Io Ci Provo, teatro politico e sociale nel carcere di Borgo San Nicola a Lecce.

Testo e foto di Valeria Nicoletti

Sono le 3 di un pomeriggio di fine luglio. Il carcere di Borgo San Nicola, alle porte di Lecce, si raggiunge dopo un lungo tratto in tangenziale, dove anche l’aria condizionata si arrende ai 50 gradi percepiti dell’estate salentina. La casa circondariale s’intravede all’orizzonte, sembra avere i brividi per la fata morgana che aleggia sull’asfalto. È una costruzione recente, priva del fresco spontaneo che regalano i palazzi più antichi e, viste da fuori, con le finestre intasate dalla biancheria e dai vestiti messi ad asciugare, le celle sembrano sudare. Sotto una distesa di erba secca, le punte delle agavi sono l’unica macchia verde.

L’appuntamento è davanti al primo ingresso della casa circondariale. Paola Leone, ideatrice del progetto Io ci provo, Antonio Miccoli e Gianluca Rollo, arrivano con un ventilatore e un mucchio di ventagli, “altrimenti oggi non riusciamo nemmeno a parlare”. Paola, regista, attrice e pedagoga teatrale, originaria di Taranto, ha iniziato a lavorare in carcere nella sua città, dieci anni fa: “io sono di Taranto, una città dove la sera si esce con persone normali, tranquille e poi il giorno dopo te le ritrovi sul giornale, arrestate, con storie incredibili alle spalle e un presente difficile da comprendere”. È per avvicinarsi e capire un po’ di più il confine sottile che divide i cittadini “per bene” dai “delinquenti” in una città del Sud che Paola bussa alle porta del carcere di Taranto per raccontare e proporre una visione altra della reclusione, attraverso il suo linguaggio quotidiano, quello del teatro.

Nel 2005, il primo laboratorio a Taranto termina con una performance che coinvolge un solo detenuto, gli altri sono trattenuti in carcere per mancanza di scorta, trasferimenti o impedimenti burocratici. Il progetto approda a Lecce nel 2011 nella casa circondariale maschile, con la creazione di una compagnia, e da qui è cresciuto e ha raggiunto con successo il traguardo dei quattro anni, con un’agenda ricca di date e performance. Oggi la compagnia conta circa una ventina di attori. Questo pomeriggio, ci sono i pasticcini per festeggiare un compleanno, i ventagli colorati in mano e tutti hanno il quaderno con i primi appunti per il prossimo spettacolo. Ci sediamo in cerchio, come durante la lettura di un copione, nell’atrio antistante il teatro. “Non abbiamo una drammaturgia, ma lavoriamo sulla scrittura collettiva con contributi dall’esterno”, spiegano, “abbiamo chiesto di ricevere spunti, idee, input sul tema dei sette peccati capitali per costruirci intorno dei monologhi”, mescolando vissuto personale, pregiudizi, esperienze, vita in carcere.

Io ci Provo lavora con la sezione maschile della casa circondariale, coinvolgendo detenuti di ogni reparto, età e nazionalità. A prendere la parola per primo è Leonardo, 53 anni: “non avevo mai fatto teatro prima d’ora e la barriera più difficile da superare è stata la paura del ridicolo, con i miei compagni che avevo davanti tutti i giorni”. Accanto, continua Alfonso, 63 anni, camicia a maniche lunghe e un aplomb napoletano difficile da confondere: “mi piaceva cantare e ho sempre voluto fare teatro”, racconta, “qui alle regole del teatro si mescolano quelle del carcere”, spiega.

Non ci si offende tra compagni, c’è il rispetto, un codice implicito ma ben chiaro a tutti, “nel teatro invece ci siamo dovuti tenere la cazziata, il richiamo, la severità di Paola”, un universo inedito all’interno di un mondo carico di codici, etichette, linguaggi, immaginari.

“Vogliamo costruire un ponte tra la città libera e la città chiusa”, spiega Paola, “per un’evasione che non sia solo metaforica”. Quasi nessun attore della compagnia dispone di permessi regolari e, per tutte le date in teatro, sempre più numerose, occorre organizzare la scorta, un poliziotto per ogni detenuto. E visto che è stato così difficile portare il carcere fuori, Paola e i suoi attori all’inizio ci hanno provato portando la città dentro. “Abbiamo invitato gli spettatori all’interno del carcere, per la prima volta dopo il tramonto, alle 20 di sera”, racconta Paola, “è stato un debutto straordinario”. Da quel momento, la compagnia ha avuto anche la direzione e la polizia penitenziaria dalla sua parte.

“Avevamo erroneamente pensato che Io ci Provo fosse solo un’altra attività ricreativa come tante, ma è diventato un percorso che coinvolge completamente i detenuti, non solo durante le ore sul palcoscenico”, spiga Rita Russo, direttrice di Borgo San Nicola, “questo laboratorio è il simbolo del cambiamento del carcere di Lecce, perché insieme ai detenuti siamo usciti noi, è uscita la polizia, gli agenti, il carcere tutto”. È un teatro che nasce per essere raccontato fuori, che non riesce ad accontentarsi di riempire il tempo vuoto della reclusione ma si completa con l’esterno, “il lavoro di Paola non avrebbe avuto senso se non fosse stato portato fuori”. Grazie a Io ci Provo, inoltre, i detenuti del carcere di Lecce hanno ottenuto una data fissa al teatro Paisiello di Lecce, piccola bomboniera cittadina, ogni 6 ottobre.

Accanto ad Alfonso, alza la mano Maurizio, uno dei pochi ad aver già lavorato in teatro, insieme alla Compagnia della Fortezza di Volterra: “mi sono messo i tacchi, ho avuto il ruolo del prete omosessuale, non è facile per noi detenuti calarsi in queste situazioni”. Gaetano è al secondo anno di teatro insieme alla compagnia. Ha preparato il suo intervento, contando persino i minuti di cui ha bisogno per dire tutto: “qui siamo come pacchi postali, da un giorno all’altro possono trasferirci e il teatro scompare”, racconta, “io mi ci sono messo in gioco con tutto me stesso, dalla formazione del gruppo alla realizzazione dello spettacolo, è come se avessi riscoperto una parte di me che non conoscevo”. Come scriveva Eugenio Barba, la parte più importante del teatro avviene prima del sipario, nella creazione dei legami, nel sentirsi, giorno dopo giorno, un gruppo, più simili forse, più vulnerabili e, di conseguenza, più umani. “Non sono recite”, interviene Fedor, “condivido con 50 persone un corridoio, ho l’impressione di sentirmi diverso, grazie al teatro, ammetto di non essere ancora riuscito a far cadere tutte le barriere ma qualcosa si sta muovendo”.

“Non si possono demandare al carcere tutti i problemi legati al carcere”, spiega Paola, “abbiamo fatto di tutto per allontanare la reclusione dalle nostre vite, escludendola dal pensiero, dal perimetro urbano, noi vogliamo riportarla in primo piano, è un atto politico, una modalità di vita, per accorciare le distanze: il carcere si abolisce prima nella testa”.

“Non abbiamo mai fatto finta che non ci fosse il carcere intorno al palcoscenico”, spiega Paola. Forse all’inizio, l’astrazione è stata cercata, voluta, desiderata ma poi è stato impossibile eliminarne il pensiero, come una presenza ingombrante con cui fare i conti. L’obiettivo è provare a portare il teatro oltre le mura del carcere, “nella casa di Io ci Provo, fuori dal carcere, per la nostra compagnia stabile”, spiega Paola, “lavorando, continuando a fare le prove, ci siamo resi conto di quanto il teatro non ci bastasse più, quello che vogliamo fare è comunicare attraverso la scena e, per farlo, abbiamo bisogno di un pubblico”. Il teatro come strumento e non come fine, come canale per passare oltre la quarta parete e proiettarsi all’esterno, come una via d’accesso alla comprensione di una dimensione altra, un modo per sviluppare un senso critico rispetto alla condizione di recluso, al mondo esterno, al proprio rapporto con gli spazi, i tempi, le interazioni coatte del carcere.

Quello di Paola e dei suoi attori è un teatro profondamente radicato nel carcere, che non punta alla distrazione ma alla riflessione presente a se stessa e alla ricerca di una via concreta per un contatto con il mondo esterno, un lavoro attento che comincia dalla percezione del teatro come una nuova possibilità professionale al di fuori del carcere. “Tutti i miei attori ricevono un compenso regolare”, spiega Paola, “vorrei avere la possibilità di assumerli, di farli lavorare con me anche oltre gli spettacoli e ci piacerebbe creare un’accademia di lavoratori dello spettacolo, formare nuove figure specializzate”.

Il teatro è il canale da attraversare per percepire quello che la compagnia ha definito “la possibilità dell’impossibile”: immaginare una nuova strada lavorativa nel teatro, reinventarsi come attore, scenografo, imparare il mestiere dello spettacolo, riconnettersi alla realtà nel luogo dell’esclusione, della marginalizzazione. “L’obiettivo è lavorare con il teatro non con il carcere”.

Ripensare il dentro, cominciando da fuori. Lavorare per costruire un nuovo immaginario, un campo semantico altro associato alla dimensione carceraria, iniziando dalle scuole. È Gianluca Rollo ad aver curato gli incontri con 80 studenti delle scuole superiori di Lecce, insieme ad Alessio, un detenuto in semi-libertà: “abbiamo chiesto agli studenti di associare delle parole al carcere, abbiamo giocato con i bigliettini, mescolato le carte e ne è venuta fuori una mappa semantica negativa, che stiamo tentando di modificare, facendo incontrare i detenuti con le vittime dei reati, attraverso il confronto, il dialogo e naturalmente il teatro”.

“Io ci Provo ci coinvolge tutti, dal personale di vigilanza agli agenti, io sono persino consultato quando si costruisce la scenografia”, racconta Riccardo Secci, comandante della polizia penitenziaria al carcere di Borgo San Nicola, a Lecce da febbraio 2011. “Quando sono arrivato, avevano appena iniziato, ho visto crescere questo progetto in tutte le sue fasi, sin dalla diffidenza iniziale, anche da parte mia, che capivo poco di quello che stava succedendo e cambiando in un carcere come quello di Lecce, tradizionalmente votato alla chiusura, dove fino a pochi anni i detenuti passavano fino a 20 ore in cella”. È stato instaurato un nuovo modo di fare sicurezza in carcere: “c’è un rapporto di complicità positiva tra gli agenti coinvolti e i detenuti, senza forzare i rapporti personali, senza compromettere la naturalezza delle interazioni”.

Mentre il caldo continua l’assedio, ci trasferiamo in teatro per le foto sul palcoscenico, i saluti, gli arrivederci. Questo è l’ultimo incontro della compagnia prima della pausa estiva. “Sta per arrivare il mese più difficile”, li saluta Paola, “prima di tutto per il caldo e perché non ci vedremo, non fate stupidaggini e a settembre iniziamo con le prove”. Poi raccomandazioni, strette di mano e un abbraccio a tutti, di quelli sbrigativi però, che se si resta un po’ di più forse ci si commuove e in carcere, così dicono, bisogna fare i duri.