Parole in esilio/Cafuné

VI SONO PAROLE CHE ESISTONO SOLO SE PRONUNCIATE IN LINGUE D’ORIGINE

di Isidora Tesic

Passare le dita tra i capelli della persona amata
Portoghese

Tutto un abito di vento s’assottiglia attorno alla prua. E si sveste, vivo, il cielo. Un lembo di terra ultima, prima di partire, ha lasciato con ereditato abbandono il peso sui talloni. So, ora, che solo chi viaggia ad occhi vasti può diluire una nostalgia non mai curata.

L’acqua suona brulla nel solco aperto dallo scafo. E il mare beve a sorsi lenti la nostra distanza. Ancora poche mormorate maree e ti rivedrò. Mi giro a labbra chiuse. Mi stanno attorno, convocate da mite calore, persone dalle voci arroccate. Offro agli occhi una tregua dal vuoto d’orizzonte. E sempre più si popola il ponte.

La donna giovane accanto a me sillaba una lettera in italiano ad un uomo sedutosi quasi per caso. Lui ha in una mano una fiamma viva. E con sguardo sperduto osserva l’abbraccio di due figure contro il cielo. Anche altri occhi, più vecchi, li guardano inteneriti. Non si accetta indifferenza davanti all’amore. Tranne che per il proprio, quello ormai in declino. Se lo portano indosso un uomo ed una donna, passeggiando lungo il ponte. Stanno alla distanza di una mano non presa. Ed alla distanza di un rimpianto abituato guardano i figli degli altri.

In sottofondo si accordano gli strumenti d’orchestra serale, intrecciati al vocio dei bambini che in gruppo giocano a campana. Saltano sul mare come sulla terra, sempre verso l’alto. Sorrido, sottovoce. Si fa piccola Babele in moto, la nostra nave. Tra tutti svetta, saltando in sfida al cielo, una bambina. A tratti ride di un riso di terra, pieno e soffice. Ma nelle pause versa la malinconia. Si assomiglia la sua, nascosta, ad una nuda in uno sguardo già visto a Napoli.

Era in Piazza Carità, che di carità parlava ben poco. Suonavano di naufragi delle mani di un piccolo cantore. Mordevano delle corde svolte in una direzione di fuga.

Ed è da lì che mi seguono nuvole nate a poca vita. Come albatros che preannunciano un
ritorno a casa. Una si accartoccia in un’alta fiamma bianca. Poi un respiro avventato la
spezza, liberando un tramonto di spicchio di arancia aspra. Sgorga rossa la luce verso il
centro del mare che non conosce ombre. E tra le grinze di un fiato salato, nasce quella stessa aria gualcita. Gonfia di inatteso incanto. Come quella notte, a Lisbona.

Venire era stato gesto di contro cuore. Mi avevano convinta, sai come possono essere, con il passo di danza nelle anche. A me, invece, le feste popolari lo rendono arido. Hanno un lustro d’abbandono, di brusca e corta allegria. Eppure per istinto, avevo scelto di dare tempo al non volere. Misuravo il peso degli attimi da scontare per scandire quelli di meraviglia.

Come se ci fosse dato tenere un conto dello stupore e della noia.

Ma la piazza che avevo visto mi aveva dato promesse. Rauche, non arrese le voci. Si annodava nei passi la vittoria contro le piccole, taciute disperazioni di ogni giorno. E mentre io riconoscevo nel frantumo di volti il mosaico di una fede senza scopi, tu davi lenza al loro naufragio, suonando. E mi vedevi.

Ci avevano presentato, poi, per spirito di comunione. Perché la leggerezza è un bene
comune, come la gioia, avevano detto. Avevi il mandolino annidato tra le spalle. Mi avevi
sorriso ed in un attimo lo avevi scardinato dall’incastro della tua schiena. L’avevi allisciato contro il torace, come una lucida sfida. E sempre, affondando la polpa dei tuoi occhi nei miei, avevi suonato, ancora. Si accresceva ai colpi di una tarantella napoletana la malia.

‘Cos’hai lì?’

Mi richiama all’ordine una voce vigile. La bambina della vetta è accanto a me, lo sguardo
appuntato sulla mia custodia.

‘È un mandolino, napoletano’, rispondo in un italiano a parole storte.

Lei mi guarda, gli occhi come reti.

Ed io aggiungo, ‘L’ho portato per farmi compagnia.’

Lei non sembra convinta. Ed anche a me suona un accento di inganno.

‘Sembrava la custodia di un palloncino. Quelli che portano attraverso le nuvole’, dice.

Poi mi mette alla prova.

‘Suona qualcosa.’

Mi sfugge un sospiro.

‘Non so.’

‘Non suoni?’

‘No, io no.’

Sorrido e penso. Per primi ho amato i nervi delle tue mani. Il ramo celeste lungo i tuoi polsi. Avevano la dolcezza dello scatto spaurito quando tendevi, accorato, le dita alle corde del mandolino. Mandolino napoletano, lo avevi specificato, con gli occhi come falci nere, mentre lo accordavi. Per note non mute. Per note come ami per danzare.

‘Se non lo suoni, perché lo porti?’ chiede.

‘Lo sto portando a qualcuno che me lo potrà suonare.’ rispondo.

Ed è vero. È a te che lo porto. Mi ricordo, all’inizio la gioia era culto, perché non ci veniva ereditata. Eravamo assuefatti dagli abbandoni. Ed un destino sfuggito non l’attendevamo. È così che abbiamo desiderato il ruvido tatto di una felicità sovrana. E il tatto della mia aveva l’arco del tuo petto chiuso sopra il mandolino. E il suono delle tue dita, come scogli, nel rovesciare dei miei capelli. Non credevamo potessimo essere d’assedio facile allo sconforto.

Ma la tristezza sceglie, talvolta, le persone da assetare. E se sul conto della felicità ci era dato imbrogliare, la tristezza aveva una bilancia precisa. Un peso accordato. Che avesse scelto te l’ho notato poco per volta, nei lunghi adagi. Poi d’improvviso non hai
scelto più il pulsare affollato di una musica tutta sangue, risa e baci. Le tue mani
disegnavano altro, sul mandolino. E pure quello, avevi cambiato. Il mandolino napoletano
che guizzava, l’avevi ammutolito. Avevi, al suo posto, acquattato tra le braccia, un
mandolino portoghese. Suonava tenue, malinconie di fuori bordo. Sembravi un marinaio
d’incerta origine. Sull’orlo di un’acqua rasa.

Dura poco la curiosità di una storia con finale aperto. Mi ritrovo da sola. La bambina si allontana, richiamata. Abbasso lo sguardo sul mandolino. Per la prima volta ho negli occhi una spina di incertezza.

Poi la sento correre indietro, come se l’avessi imbrogliata. Mi guarda ancora, misurando la verità nelle mie parole. Poi mi domanda.

‘Quanto pesa?’

Io allargo le mani e le dico. ‘Pesa tanto quanto la felicità.’

Sorride, meravigliata. Accarezza il mandolino e si allontana, di nuovo. Più sicura, ora che sa che la felicità si può pesare. E lo so anch’io, in un punto sulla pelle del mare a due giorni da Lisbona. Mi rimane, assurda, questa certezza. Sarà il peso della nostra felicità, quello del mandolino.

No, non sono fuggita, quando la saudade ti allungava lo sguardo. Ma la tristezza mi sta
stretta. Anche quando ha le tue vesti. Non invogliarmi a tregue spente. O ad una serenità
omessa. Piuttosto riprendi a occhi tesi ciò che già sei. E raccogli dal cavo dei miei, una
salvezza che ci appartiene. Siamo come terra e acqua, noi. Assetati e saldati. E non ancòra, ma vela, timone, non porto voglio esserti. Ma sarai ancora la schiena che accoglie, come grembo, la spinta verso il cielo? Io credo.