In fondo è anche una questione di etimo incosciente questo rapporto di forza fra gufi e allocco.
di Angelo Miotto
Illustrazione di Enrico Natoli
Le parole che stanno in bocca, troppo spesso, vengono pronunciate senza sapere che hanno una storia. E la storia che viene dalla radice etimologica delle parole stesse si vendica. Ovviamente solo se ci si ferma a pensare. E, ovviamente, è solo una teoria a me cara da tempo.
Eppure i gufi che son tornati di moda nel gergo arrogante del presidente del consiglio – che non è un premier, colleghi, rassegnatevi e imparate a fare i titoli sui giornali – sono le vittime inconsapevoli di un simbolo che si vuole di malocchio, di malaugurio. Credenze, simbologie popolari, ottima brevità carica di significato per l’instancabile cinguettare di Matteo Renzi.
Un altro tassello: approvata la riforma PA #lavoltabuona un abbraccio agli amici gufi
— Matteo Renzi (@matteorenzi) 4 Agosto 2015
Se fossimo normali, non lo siamo quindi, quando abbiamo visto che durante un incontro interno al Pd c’era una slide su come comunicare con gli oppositori con una foto di un gufo, avremmo chiesto forse l’intervento almeno di una perizia medica. È la valenza del ‘gufare’, non di essere dei pennuti, inteso proprio come l’animale con i grandi occhi, il becco adunco e soffice piumaggio.
No, a noi fa ridere, in ufficio scappa una battuta. In quelle stanze, quelle di un partito di governo, sorbiscono la slide come un gelido frappé in una giornata di queste, bollenti. Forse anche divertiti da un fatto che è simile a spiegare una barzelletta, cioè dico gufi, malauguranti, e ci metto proprio gufi! Geniale.
Il ‘tié’, che poi è come il gesto dell’ombrello, che viene propinato a ogni fiducia o approvazione di presunta riforma sempre nell’immancabile twitter sta proprio nel richiamarsi agli amici gufi, con quel pizzico di ironia che si vorrebbe far passare come lo stiletto linguistico toscano del saper polemizzare, ma dal pulpito istituzionale di un presidente del consiglio – non premier – non fa ridere, anzi procura in molti di noi prima imbarazzo e poi fastidio. Quindi altre veementi reazioni.
Poi arriva il Cencelli sul Cda della Rai. E uno si guarda intorno spaesato, guarda alle grandi televisioni pubbliche di altri Paesi – non la Spagna dove avvengono cose simili e gravi – e quando citano l’immancabile tweet del 2012 di Renzi su ‘fuori i partiti dalla Rai’ non viene nemmeno quella soddisfazione di dire: ecco, vedi, ecco cosa diceva! No, non viene perché già lo sai e già te lo aspetti, insomma perché si è rotto quel meccanismo per cui le parole dette a vanvera o a fini strumentali, quali quelle di finzione elettorale o di captatio benevolentiae per irretire menti desiderose di chiudere stagioni orribili del disgraziato Paese, sì è rotto dicevamo il ferreo rapporto che lega la parola a un significato.
Quando una parola perde significato, la parola muore. Diventa semplicemente altro. Quando un tono si posiziona perennemente sull’iperbole e sul dispetto o sull’invito più o meno edulcorato ad andare… tutto diviene monocorde, ripetitivo, stantìo, poco credibile rispetto al ruolo di seria responsabilità che significa l’essere a capo di un Governo.
Va tutto bene, andiamo avanti, eppure si muove, un altro tassello, missione compiuta: cinegiornale.
Il tono è urlato. Il twitter di Renzi ulula, proprio come è particolare della radice etimologica di un altro pennuto. La radice etimologica in questione UL è propria di altre parole e verbi, come ULULARE per esempio e indica colui che grida, che urla. L’animale è l’allocco. Una bestia; che grida e urla, l’allocco.
I Gufi. L’allocco.
Intanto il Cencelli alla Rai, le riforme strombazzate come se fossero la manna dal cielo, il va tutto benissimo – torna la Spagna di Aznar che diceva ossessivamente ‘Vamos bien, vamos a màs’ – le fiducie, gli accordi con Verdini, un governo di alleanza che non si capisce che ci sta a fare, visto che nacque un dì di un’era fa’ e ora siamo da un’altra parte. Nacque sullo ‘stai sereno’, altra espressione ahimé che ora in molti rifuggono e che se pronunciata equivale a una sentenza di morte annunciata.
È, lasciatemi essere banale in questo blog sui rapporti di forza, come una volta, non molto tempo fa’. Quando avevano scippato, almeno di fronte alle partite della nazionale, il piacere di gridare Forza Italia, o forza azzurri. Ecco ora non stiamo sereni, la fiducia significa che si fa forza con la prepotenza della maggioranza perché di fiducia non ce n’è, la partita è personale e del culto dell’Uno. Si gioca sull’apotropaico ombrello nel posto di Altan per i poveri gufi. E l’allocco urla e grida.
Intanto le mamme imbiancano, direbbe Toto Cutugno, e noi ci perdiamo pezzi di vita politica. I barconi si rovesciano, i Cara sono dei lager dove prosperano illegalità e omertà in divisa, a Sud son affaracci loro, la scuola, la pubblica amministrazione, il senato e i vertici della Rai sono nelle mani di un’unica visione, si cita il Vietnam interno senza pudore per il termine di paragone, gli si risponde citando il napalm, altrettanto senza rispetto e cura su comparazioni davvero tristi.
In fondo si sta bene, via quelle facce. È normale che da Kyoto un personaggio istituzionale esterni sulla minoranza del suo partito (dal Giappone?), o che non trovi gli attributi giusti per presentarsi il 2 di agosto davanti ai bolognesi, alla stazione martoriata.
Abbiamo un grande problema (qui l’etimo dice: qualche cosa che ci si mette o getta davanti, non ce la farete a scansarlo primo poi dovrete, dovremo affrontarlo).
E pensare che tutto questo dire stava dentro due parole, una stravolta anche da chi scrive.
I gufi, appunto, e l’allocco. Etimo incosciente.