Shock culturale

La parabola di Srđan Jevđević
che, nella Sarajevo in guerra, maturò una metamorfosi
da stella del pop a frontman di una band gypsy-punk

Che la guerra possa cambiare chi la ha vissuta è un assunto purtroppo innegabile e incontestabile. Ma che anche una rivoluzione possa avvenire lo testimonia la parabola musicale e umana del frontman del gruppo statunitense Kultur Shock. Al secolo Srđan Jevđević, nato a Sarajevo e figlio della classe medio-alta, durante gli anni ’90 del secolo scorso si è esibito come cantante di musica pop sotto il nome d’arte, che era anche il nome del suo gruppo, di Gino Banana. Un nome, un programma.

Una specie di Ricky Martin jugoslavo”, si è poi definito lui stesso.

La sua carriera lo portò ad attraversare la Jugoslavia in lunghe tournée, mentre le sue sdolcinate canzoni d’amore, che grondavano anni ’80 da tutti i pori, risuonavano dalle radio. A meno di trenta anni, riuscì ad acquistare due appartamenti e fu accolto nell’olimpo delle celebrità pop che in quegli anni a Sarajevo riuniva grandi nomi. Sebbene, come avrebbe ricordato in seguito, iniziasse a invidiare le garage band che provavano nelle cantine, era convinto che la sua vita avesse preso un’altra strada.

Poi venne la guerra. Srđan era un serbo che, come molti altri nel 1992, decise di non passare dalla parte di chi teneva sotto tiro la città, ma di condividere la tragedia dei suoi concittadini.

Trascorse tutto l’assedio a Sarajevo e fu tra coloro che organizzarono la mitica messa in scena del musical Hair in una capitale assediata in cui mancava l’elettricità e l’acqua corrente e in cui il pubblico rischiava di essere freddato dai cecchini ogni volta che usciva.

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In quelle circostanze eccezionali, in cui la guerra e la morte erano diventate la normalità e la scena culturale di una Sarajevo stremata offriva un esempio encomiabile di resistenza culturale, promise a sé stesso che non avrebbe più fatto musica commerciale. Come lui stesso ammise, la vita era troppo breve e il rischio di morire troppo alto, per non dare sfogo alla propria espressività e seguire ciò che il pubblico chiedeva.

La vivacità delle esperienze artistiche durante l’assedio maturarono in lui speranze rispetto a quella che sarebbe stata la società del dopoguerra.

La sognava indipendente dai beni materiali perché aveva imparato a vivere senza nulla e pronta a valorizzare il potenziale umano che le aveva permesso di sopravvivere nell’inferno. Ma le cose andarono diversamente e alla fine del conflitto sentì il bisogno di partire.

Riuscì ad arrivare negli Stati Uniti e a ottenere una carta verde grazie all’aiuto di Joan Baez e al progetto di girare un documentario sulla scena culturale sarajevese che non vide mai la luce. La cantautrice statunitense era stata la prima celebrità a recarsi nella capitale bosniaca, cercando di attirare l’attenzione internazionale sul massacro che andava compiendosi davanti alle telecamere. In quell’occasione a un party lei e Srđan si erano conosciuti.

A Seattle nel 1996 Srđan fondò i Kultur Shock, inizialmente un progetto che fondeva sonorità balcaniche ed elementi elettronici, ma che a breve subì un’evoluzione verso il punk e l’hard rock, fusi con le sonorità gypsy e la musica tradizionale balcanica.

Una svolta musicale che ebbe come padrino d’eccezione fu Krist Novoselic, bassista dei Nirvana, di origini croate.

Si trattava di una seconda vita, con una cesura anche visuale: Srđan si rasò i capelli a zero e lasciò crescere una lunga barba e i dread, un fisico tarchiato da lottatore di sumo, evidenziato dalle braccia coperte da tatuaggi. Iniziò a definirsi anarchico e l’anarchia intesa come caos rigeneratore divenne il centro attorno al quale ruotava la sua musica.

Quello che ne venne fuori fu un sound violento e trascinante, un’energia primordiale data dalla combinazione – o, se si vuole, dallo shock culturale – di diverse tradizioni musicali e di musicisti di diverse provenienze, dalla Bosnia Erzegovina agli Stati Uniti, dalla Bulgaria al Giappone.

La band ha pubblicato sei album e tiene un centinaio di concerti all’anno, dagli Stati Uniti all’Europa – ma soprattutto è facile incontrarli nella penisola balcanica.

Spesso paragonati ai ben più famosi Gogol Bordello, i Kultur Shock sono, nonostante la presenza di un violino, musicalmente ben più violenti e si sono ritagliati un pubblico di nicchia che li segue assiduamente da entrambi i lati dell’oceano.

Un cambiamento travolgente, quello di Srđan Jevđević, una parabola artistica bizzarra che si rispecchia proprio nei versi di una canzone dei Kultur Shock: Mi avvicino ai 45 e sono appena diventato matto.