Storia di un amuleto

Una prigione boliviana. L’incontro con i detenuti. E un dono inaspettato

di Gabriella Ballarini. Foto di Francesca Oro

Questa è la storia di un amuleto. Nero, smerigliato, ha la forma di uno squalo. Uno squalo dagli occhi piccoli, fatti di metallo. Un amuleto speciale, che nasce nella Carceleta di Riberalta, Beni, Bolivia. La Carceleta è un istituto penitenziario che ospita 120 uomini e 4 donne, ma i numeri possono cambiare in fretta, oppure no, dipende dal vento che tira. La Carceleta è la sospensione dei diritti umani, è rumore di voci che chiamano voci, che attendono spiegazioni.

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Entriamo al carcere per un incontro con i detenuti del braccio inferiore, tre celle da tre passi per tre passi, circa 80 persone ospitate in questa parte. Entriamo e prima però attraversiamo il marciapiede con i due uffici principali, poi la stanza dove sta la polizia penitenziaria. È un dirsi “buongiorno!” e un guardarsi attorno. Tre celle punitive affacciano direttamente sui letti dei poliziotti. Sono verdi, alte forse un metro e novanta, larghe circa sessanta centimetri, profonde quanto il corpo di un essere umano eretto. Quando succede qualcosa di sbagliato, il detenuto viene chiuso in queste grate, resta in piedi per tutto il giorno fissando un punto di fronte a lui. Non ci si può accovacciare, non ci si può sedere, non si può fare nulla, si può solo fissare di fronte, o spingersi verso il muro, facendo leva sulle braccia e magari chiudere un po’ gli occhi, riposare lo sguardo, alleggerire le gambe, fino a che arriva la notte e la punizione viene sospesa per dormire, con la promessa di ricominciare, l’indomani, a tenersi in equilibrio sui propri piedi e basta e zitto, che va bene così.

Di questi carcerati, forse un terzo è stato giudicato colpevole e quindi finito qui. Il restante capitale umano è in una terra di mezzo, senza soldi per un avvocato, senza avvocati di Stato, senza un reale capo d’accusa, senza colpa, senza diritti.

Entriamo, finalmente, diciamo di avere una macchina fotografica, ma che fotograferemo solo le mani, che tanto non è che puoi riconoscere qualcuno dalle mani, o forse sì, ma chi se ne frega? Entriamo, siamo cinque donne, loro ci stanno aspettando. Seduti, come fosse una classe scolastica, colorati con quelle magliette delle squadre di calcio, rosse e bianche, gialle e verdi, blu e bianche. I colori, in mezzo a quei cinquanta metri quadrati, dove tutto avviene, l’ora d’aria e la partita di calcio e fare da mangiare e chiacchierare e noi.

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Mi guardano tutti, attendono che io dica qualcosa. Io mi guardo attorno e loro guardano me. Siamo al primo anello, e quelli di sopra non possono venire di sotto. Leggi locali. Questo è il mio territorio, quello il tuo, in questo fazzoletto di inferno, ognuno costruisce il suo giardino. Parlo, mi ricordo di aver parlato, di aver detto delle cose e poi mi ricordo che loro mi ascoltavano, abbiamo allargato i tavoli ad un certo punto e sul pavimento abbiamo steso un telo perché l’acqua che era a terra non compromettesse quello che stavamo per fare. In tre minuti tutto era pronto, adesso il ricordo si fa vivo e li rivedo con i pennarelli in mano, a disegnare la Carceleta, ognuno che prende un lato del foglio e lo trasforma, cambia la forma.

Si siedono come a formare un diamante e iniziano a disegnare infinite righe verticali, infinite finestre dove il mondo è un po’ nero e un po’ c’è luce.

Non ci sono letti nelle celle, non ci sono letti nel disegno, non ci sono letti: si sta come chi non esiste, fantasmi occultati da un sistema che stritola chi non può comprare la propria libertà. I ragazzi continuano a disegnare, i loro piedi sono neri di tempo che passa senza camminare e la terra si trasforma in ricamo e i colori cambiano colore e le unghie si fanno nere di polveri occultate e l’umido crea un’ immagine fissa, una pelle che ripara la pelle. Da una cella arriva una voce che ci chiama e così io mi avventuro e un ragazzo, al buio, è lì che dipinge un panorama amazzonico di verde e giallo e il marrone e gli animali e gli alberi e la vita della foresta, il mondo fuori dalle righe verticali.

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Lui termina il dipinto e lo mettiamo in mezzo al foglio e poi altre cose arrivano dalle celle e i ragazzi si alzano dalle sedie ed entrano ed escono dalla cella due e dalla tre e ci consegnano oggetti, alberi di metallo dipinti a mano, bracciali, portachiavi. I colori aumentano e poi i pennelli e la tempera blu e quella verde e disegnarsi tra le righe, una pausa di colore tra i segmenti e le scritte e il campo da calcio grande come un piazzale di un palazzo periferico di una grande città, che le porte sono grandi nemmeno un metro, ma almeno ci sono. Il ragazzo che appoggia le sue scarpe da ginnastica e ci racconta che l’unica cosa che possono fare delle scarpe così, in un posto così è riposare: «los zapatos, aqui, descansan» (le scarpe, qui, riposano. La sua frase rimbomba nella mia testa e mi metto da parte il foglio con un appunto, l’appunto che racconta delle scarpe che riposano e il foglio grande, quello a terra, che continua a riempirsi di frasi, di colori, di oggetti, di pensieri, di tempo presente.

L’ora e mezza che passiamo insieme trascorre in fretta, una fretta che scava dentro, un tempo che consuma gli sguardi, che dice di non piangere, non di fronte e loro e allora giù ancora parole, parole pesanti come macigni, parole che dicono che loro esistono e che devono restare umani.

Che io lo dico e me lo ripeto e chiedo loro di ricordarlo a tutti quelli come me, che ci sentiamo chissà chi solo perché abbiamo preso qualche aereo e abbiamo attraversato quel cancello. E poi lo guardo il cancello, mentre parlo, lo guardo e lo temo, lo guardo e poi guardo i ragazzi e rivedo me, in ginocchio sul quel pavimento di terra e cemento, alzo lo sguardo e vedo un cielo che è solo un quadrato, con qualche nuvola e il sole che filtra ma non asciuga, non fa in tempo, non ha spazio: il sole, non ha spazio. Nessuno ha il suo spazio qui e nemmeno io, finisce il nostro tempo e ringraziando raccogliamo tutto e andiamo, i ragazzi prendono un foglio, una parola, qualcosa per ricordate il momento appena passato e arriva lui, quello che ha disegnato se stesso più grande di tutta la Carceleta, mi guarda e mi prende la mano.

Mi guarda ancora, negli occhi e apre la sua mano nella mia, mi dice che questo è un amuleto ed è per me, per non dimenticare, per l’infinito.

Questa è la storia di un amuleto che dentro di lui ha l’infinito. Un amuleto che io lo stringevo in mano uscendo dal cancello, che non si trovavano le chiavi e io volevo uscire, con il mio amuleto, ma volevo uscire in fretta. Il cancello si apre e scappo alla prima porta, esco e saluto e mi affretto tra gli uffici e il cantiere, uno di quei cantieri latinoamericani dove le impalcature sono di legno e non lo capisci se tutti sopravvivranno alla giornata di lavoro. Corro, corro veloce e tutto esce, dalle viscere, lacrime che non sapevo di possedere, il singhiozzo e ancora sui piedi la polvere del ricordo di aver camminato il cemento della Carceleta.

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Qualche giorno più tardi il Presidente Evo Morales dichiara, durante il discorso del giorno della Patria, che il popolo di Bolivia deve lottare contro le ingiustizie del sistema giudiziario di Stato. Il discorso mi stringere lo stomaco, io, testimone di un gioco crudele di parole vuote, di pavimenti che sono letti che sono latrine, di uomini insetto schiacciati nella sospensione della propria vita. Dichiarerò poi, invitata a intervenire in una radio locale, che non dobbiamo smettere di pensarci esseri umani, ma la sensazione è stata di essere una nuova voce che parla parole vuote.

Questa è la storia di un amuleto senza nessun potere, solo quello di essere infinito.