Bolivia, vite a cottimo

Viaggio in una beneficiadora, dove il lavoro è il tempo di una vita

di Gabriella Ballarini, da Riberalta, Bolivia

È un mattina di caldo amazzonico quando un ragazzo che collabora con il nostro progetto qui a Riberalta ci dice che ci porta in una beneficiadora. Cos’è? E’ una fabbrica dove si confezionano le noci amazzoniche (almendras). Cosa sono? Per spiegarlo faccio sempre così: hai presente a Natale, quando c’è la confezione della frutta secca, quella mista? La noce amazzonica è sempre presente in numero 2 esemplari e c’è chi se la contende, poi con lo schiaccianoci cerchi di aprirla e la metà ti rimane attaccata alla scorza.

Il frutto è buonissimo, un incrocio tra il cocco e la noce, preziosissimo, in Italia sono tra le più care, una delizia. E quindi si prende l’auto e si va. Arriviamo di fronte alla ditta e una distesa di moto ci aspetta, dipendenti della ditta, o meglio lavoratori. Scoprirò solo dopo una serie di dettagli.

Entriamo, camice bianco, mascherina, un tizio ci guida, ci blocca alla prima entrata e ci dice che attraverseremo tutta la fabbrica per seguire tutte le fasi di lavorazione. Siamo pronte. Entriamo in un mondo parallelo fatto di polvere e assenza di aria, sacchi e sacchi e sacchi di almendras ammassati, una specie di nebbia fina satura la stanza, il rumore infernale, la luce assente.

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Uomini e donne che fanno andare rapidi le mani, bilance e orologi e scritte a penna e le misure delle mandorle, che io non capivo nemmeno quello che ci diceva il tizio che camminava tra sacchi e nastri trasportatori. Noi con la mascherina, i lavoratori senza mascherina, a dividere, parcellizzare, selezionare.

Noi con il camice bianco, loro con i vestiti di tutti i giorni. Noi a guardare, loro a guardarci. Loro spettatori di noi che andiamo a sbirciare, almeno così mi sentivo io, come una che capita per caso nella vita di qualcuno, guarda, ma senza chiedere il permesso. E poi si aprono stanze fino a che si arriva alla stanza, o meglio, LA STANZA.

Decine e decine e centinaia di persone immerse in un rumore assordante, schiacciano a mano le noci, le puliscono e le mettono in un cesto. Centinaia, che in altre fabbriche sono migliaia, tutti insieme, nessuno indossa delle cuffie protettive, alcuni indossano auricolari con della musica, rumore che si aggiunge a frastuono.

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Sono ragazzi e ragazze giovani, sono uomini e donne, sono persone grandi, ognuno possiede un numero e una macchina che schiaccia le noci. Alla fine della giornata prendono il loro prodotto sgusciato e lo consegnano alla ragazza con la cuffietta bianca, lei dice il peso e dà i soldi. Lavoratori a cottimo si chiamano. A cottimo.

Le noci più care del mondo dopo quelle Macadamia, vengono prodotte pagando persone che schiacciano gusci per ore ed ore e che non hanno un contratto di lavoro, ma il loro lavoro dipende dal peso. Sì. Me lo ripeto mentre goffamente cerco di ascoltarmi i pensieri in quel misto di musiche latine, silenzio di voci e urlare di voci, in quell’andare di guscio che si quebra (si rompe), che cade a terra, che rimbalza sulle gambe, sulle braccia, e giù a rompere i gusci e non alzarsi mai con la faccia da lì, dai propri sessanta centimetri quadrati.

Vietato parlare, o meglio, se poi parli perdi tempo e allora cosa ci vieni a fare qui? Ti fai saltare in aria i timpani per non guadagnarci nulla? A rompere i gusci ci viene chiunque, donne incinta, ragazzini, l’importante è avere il proprio numero e sperare che il peso sia buono.

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Continuiamo il giro, come fossero macchine da cucire che cantano ricami all’unisono, le schiacciatrici e gli schiacciatori, a mezzo sguardo ci ignorano e noi procediamo, con le nostre mascherine, bianche, in mezzo a stanze colore della terra. Poi entriamo negli ambienti più puliti, dove le almendras arrivano senza il guscio e si dividono.

Poi ancora in un’altra stanza, dove si cuociono un po’, poi ancora un po’, poi si abbattono definitivamente, si infornano e poi si imbustano. Imbustate sotto vuoto sono pronte a fare il giro del mondo. Mi ricordo di un’unica luce, entrava da una finestra sul tetto, la luce seguiva una traiettoria precisa e creava un fascio giallo, diritto, mi sono perduta a fissarla. Mi chiamavano, ma io nulla, non rispondevo. Pensavo. Avvolta dal mio silenzio, pensavo.

Mi rendo conto all’improvviso che molte delle donne con cui lavoro nei gruppi di quartiere, di questo vivono e poi io mi lamento se la sera quando partecipano ai nostri incontri, si chiudono nel loro silenzio e si proteggono, addormentandosi magari, con quel rumore sordo e giornaliero nelle orecchie, magari. Donne sole, che rompono per tutto il giorno gusci, sperando nel buon peso. Le almendras fanno il giro del mondo, ma il mondo sembra un posto lontano da Riberalta, dove i diritti dei lavoratori ad un trattamento degno e rispettoso vengono temporaneamente sospesi.

Il tempo venduto a cottimo, quel tempo che non tornerà mai, quei pochi bolivianos (ndr moneta locale) che guadagnano facendo andare le mani ore ed ore ogni giorno, liberando frutti gustosi da involucri durissimi, nella speranza che le noci non si spezzino, altrimenti diventano pezzi di scarto, da pagare poco, per un uso alimentare che non preveda l’esposizione.

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Qualcosa di rotto e di nascosto, da comprare per una torta o perché solo quelle di scarto ci possiam comprare. I pezzi di scarto, forse, non faranno il giro del mondo. Il giorno dopo, incontro le donne del gruppo di quartiere, parliamo del rito del cibo, portiamo della gazzosa e del guaranà da bere, loro cucinano empanadas.

Una donna arriva con i capelli bagnati, dice che ha appena finito il turno in fabbrica, mentre la pioggia ci impedisce di parlare, con le gocce che urlano sulla lamiera, lei si gode la gazzosa fresca. Appoggia il viso sul palmo della mano, cercando riposo. Le noci amazzoniche sono tra le più preziose al mondo, con dieci euro, a Riberalta, ne compri un sacco da un chilo e mezzo, con quattro euro, a Milano, ne compri un pacchetto di plastica da 250 grammi.

La donna che riposava sul palmo della mano, attende che la pioggia spiova, poi prende la parola, nel nostro cerchio e dice più o meno così: grazie, se continueremo a vederci, e da quando ci vediamo, non so e non saprò cosa voglia dire sentirsi sola.

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