L’Afghanistan oltre il mullah

Omar, la guida simbolica del movimento dei Talebani, non c’è più, mentre il Paese non conosce pace

di Christian Elia

Il 13 agosto, con un messaggio postato su al-Sahab, dopo più di un anno è tornato a parlare Ayman al-Zawahiri, l’eterno secondo di Osama bin Laden alla guida di al-Qaeda, che dopo la morte del sodale ha assunto la leadership dell’organizzazione. O di quel che ne resta. Il messaggio audio di al-Zawahiri era finalizzato a dare la propria ‘benedizione’ al mullah Mohammed Akhtar Mansour, l’uomo che dovrebbe ereditare la guida del movimento dei talebani dopo la conferma della morte del mullah Omar.

Verso Mansour viene utilizzato il titolo di amir al-miminin (guida dei credenti), titolo che era del mullah Omar, da quando – secondo una vulgata tra mito e realtà – indossò simbolicamente il mantello del Profeta, custodito a Kandahar. La storia è nota: alla testa di un gruppo di studenti delle scuole coraniche, a metà degli anni Novanta, Omar guidò la sua armata di ‘straccioni’ alla conquista dell’Afghanistan, lacerato dalla guerra civile seguita al ritiro delle truppe sovietiche alla fine degli anni Ottanta.

Arrivò il 2001, l’attentato alle Torri Gemelle, il rifiuto del mullah di consegnare Osama alla coalizione internazionale (chiese di vedere prove certe della colpevolezza del saudita, che non vennero esibite) e il 7 ottobre 2001 una pioggia di fuoco si abbatté sul paese e sui talebani, col pendo per lo più civili.

Da quel momento iniziò la latitanza del mullah Omar che, secondo quanto pare ormai confermato, è finita con la morte del leader dei talebani due anni fa in Pakistan, dove si nascondeva. Quello che non è sfuggito a nessuno, però, è che la notizia della sua morte ha seguito un timing molto poco casuale.

La notizia, infatti, è stata diffusa il 29 luglio scorso proprio quando, dopo un lungo silenzio, un presunto audio messaggio del mullah Omar benediceva i colloqui di pace in corso in Pakistan tra il movimento dei talebani e il governo di Kabul, guidato dal presidente Ashraf Ghani.

Un falso, quindi, che ha avuto l’effetto sperato: colpire la credibilità del processo di pace. Che già di suo è molto complesso. A quel punto, l’ala ‘dura’ dei talebani, ha indicato Mansour come successore. Questi, infatti, si è espresso in passato per la lotta fino alla fine, mentre l’ala ‘riformista’ (guidata da Abdul Qayum Zakir e dal figlio di Omar, Yakub) del movimento punta a un accordo che ponga fine al lungo conflitto in Afghanistan, con l’ottenimento di una serie di cariche politiche e una autonomia delle province meridionali del Paese.

Il mullah Omar era l’unico ad avere la caratura per dettare una linea univoca, che ora rischia di non esserci più. Infatti il secondo round dei colloqui di pace, previsto per il 31 luglio, è stato rimandato a data da destinarsi.

I talebani attraversano un momento complesso: la coalizione si è ormai ritirata dalle strade, lasciando la prima linea all’esercito afgano e alla polizia. Sulla formazione delle forze afgane, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno investito più di 60 miliardi di dollari in questi anni, per una forza d’urto che sulla carta è notevole (sono 195mila gli effettivi), ma che sul campo non riesce a tenere testa ai combattenti talebani, come un rapporto del Dipartimento della Difesa Usa di giugno 2015, in uno scontro continuo, che quest’anno ha visto l’aumento del 50 per cento delle vittime.

Inoltre, nel paese, in maniera per ora poco appariscente, Daesh inizia a reclutare nei villaggi e nelle città. Con una paga doppia rispetto ai talebani. Di fronte a questa minaccia, il movimento che dalla metà degli anni Novanta guida il fronte islamista, è diviso: spingere sulla linea dura per non farsi sorpassare dall’auto proclamato Stato Islamico, o tentare un accordo con il governo prima che il contagio si diffonda?

Manca una voce che possa dare la risposta valida per tutto il movimento. Senza dimenticare il fattore Pakistan, che in Afghanistan è sempre determinante. La notizia che gli Usa potrebbero tagliare gli aiuti militari al Pakistan, riportata dal Washington Post il 20 agosto scorso, è un segnale di insofferenza verso Islamabad. Che dal 2002 a oggi ha ricevuto più di 13 miliardi di dollari per contribuire alla guerra contro i talebani, ma con risultati nulli.

Il messaggio di Zawahiri arriva per soffiare sul fuoco del conflitto, con il fine per al-Qaeda, ormai ai margini della galassia fondamentalista, e dell’ala dura dei talebani di inasprire la lotta in Afghanistan per limitare la cavalcata mediatica di Daesh, che sembra irresistibile ed economicamente solida.

Il futuro è incerto, ma quel che appare evidente è che 14 anni di guerra in Afghanistan non hanno risolto nessuno dei problemi del paese, dove la violenza è la quotidianità, e dove le vittime civili aumentano ogni giorno. Secondo la missione Onu in Afghanistan (Unama), Il numero delle vittime civili ha toccato il suo apice nella prima metà del 2015. Almeno 1.592 civili uccisi e 3.329 feriti, per l’Onu. E quelli che restano che sono sempre più senza speranze.