Portogallo, al voto in silenzio

Al voto per la prima volta dall’inizio della crisi economica, dove il dissenso sembra svanito

di Marcello Sacco, da Lisbona

Il 4 ottobre i portoghesi voteranno per un nuovo Parlamento e una maggioranza che dovrà formare il governo della prossima legislatura. Se in Grecia siamo all’ennesima tornata elettorale, in Portogallo è la prima volta dopo l’esplodere della crisi del debito sovrano, l’intervento della troika e quattro anni di austerità guidata da una coalizione di centrodestra.

È sempre difficile scattare l’istantanea totale di un Paese travolto da una crisi economica come questa. Periodicamente sui massmedia scoppiano baruffe semantiche tra chi afferma che in certe parti d’Europa attraversiamo una crisi umanitaria e chi, d’accordo con il Berlusconi di qualche anno fa (e il Celentano di Svalutation), vede solo ristoranti pieni e stadi gremiti.

Non per fare contenti tutti, ma per dovere di cronaca, bisogna dire che i ristoranti sopravvissuti all’aumento dell’IVA (e magari a una marcatura più stretta della locale Guardia di Finanza) sono effettivamente pieni, ma è aumentata anche la percentuale di cittadini che per mangiare ricorre al menu di parrocchie e Ong varie.

D’altronde la crisi in questi anni ha sottratto sette miliardi e mezzo ai salari e ne ha dati due e mezzo al capitale; era la notizia di metà agosto di un sobrio giornale economico e non lo slogan di uno dei soliti partiti della sinistra disfattista. Non potendo più ricorrere alla “svalutation” di una moneta nazionale, nell’Europa periferica certi aggiustamenti si fanno tagliando stipendi reali.

E se ricordiamo, anche con l’aiuto delle canzonette, il numero impressionante di svalutazioni della vecchia lira ai tempi delle crisi cicliche (dal petrolio a Mani Pulite), vien da chiedersi quanto a lungo potrà durare l’impoverimento programmato in paesi come il Portogallo, dove il salario minimo nazionale si aggira intorno ai 500 euro e la pensione media, per l’80% dei pensionati, supera a malapena i 300 euro al mese.

Una domanda che conviene farsi proprio alla luce dei recenti sondaggi, che danno una situazione di pareggio tecnico fra il principale partito di opposizione, il socialista, e la coalizione di socialdemocratici e popolari attualmente al governo.

Significa che il Portogallo, a suo modo, potrebbe diventare un case study: da una parte la riottosa Atene, che brucia leader ed esecutivi a gran ritmo; dall’altra l’ubbidiente Lisbona, che potrebbe conferire un secondo mandato (sempre più agguerrito del primo, come sanno gli analisti dei sistemi politici presidenziali) alle politiche neoliberiste dei profeti del rigore.

A suo modo, l’esperimento portoghese è riuscito: quattro anni di politiche durissime in ambito fiscale e lavorativo e di privatizzazione di quasi tutto il privatizzabile lasciano un quadro di partiti ancora stabile (al netto di un astensionismo sempre più alto) e una conflittualità sociale sostanzialmente bassa o comunque frammentata (gli scioperi di categoria non sono certo mancati e molti se ne annunciano in autunno).

Alla vigilia del voto, i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica potrebbero persino prestarsi a letture favorevoli al governo. In fondo la ripresa dell’economia, sebbene timida, c’è e la disoccupazione è tornata ai livelli del 2010, sia pure a costo di contrattini stagionali, giochi di prestigio con stage e corsi di formazione (che hanno il dono di far sparire disoccupati senza occuparli veramente) e una tale riduzione dell’offerta che in pochi anni si sono volatilizzati oltre 200 mila posti di lavoro, cifra compensata da chi nel frattempo è emigrato o comunque si è depennato dalle liste degli uffici di collocamento.

Naturalmente gli inguaribili ottimisti devono impegnarsi a ignorare l’elefante nella stanza: il debito era al 108% del Pil nel 2011, ora è al 129%. D’altronde siamo ancora in un Paese che non ha gettato nella pattumiera tutti gli ammortizzatori sociali, e se si fonda la ripresa su lavori precari e poco qualificati qualcuno finisce per farsi carico dei disoccupati; così come, se il sistema impresariale e quello bancario si mostrano deboli, qualcuno dovrà poi tutelare chi resta scoperto. Lo stesso aumento (515 euro lordi) del salario minimo, voluto da questo governo malgrado il dissenso di Bruxelles, è cofinanziato dallo Stato, piccolo regalino alle imprese che nel frattempo avevano mantenuto bassi gli stipendi. E il numero di lavoratori a salario minimo è triplicato dall’inizio della crisi, a conferma della scarsa qualità del lavoro creato.

Eppure in Portogallo c’era voglia di sentirsi fuori dal tunnel prima ancora che le immagini dei greci piangenti sulla tastiera del Bancomat facessero la loro parte nel calamitare intenzioni di voto al centro. Una sorta di strategia della tensione senza sangue, solo lacrime e sudore.

E il messaggio dei partiti maggiori va in questo senso, con quelli di governo che dicono: “Fidatevi, si resta in Europa solo con noi”, e i socialisti: “Fidatevi, noi non siamo Syriza”, promettendo misure di alleggerimento delle imposte (Iva, Irpef e contributi pensionistici per lavoratori e imprese) che dovrebbero rilanciare il consumo interno e rigenerare i 200 mila posti di lavoro perduti; obiettivo tutto sommato modesto, ma che dovrebbe avere il pregio di sembrare realistico.

I cittadini invece restano scettici. I tiggì, dando un colpo al cerchio e l’altro alla botte, alternano rapporti sull’indigenza galoppante con scene di vacanzieri allegri che inviano selfie dalle spiagge e riempiono i prati dei festival pop-rock, veri classici dell’estate lusitana. Più di un intellettuale, intanto, riempie i giornali di articolesse sul primo capello bianco o sull’ultimo viaggio in Amazzonia, lasciando agli economisti l’onore e l’onere dell’essere engagé nel Portogallo post-Saramago.

A proposito di dibattito politico-culturale, qualche leader si sta appigliando a dei vizi di forma per cercare di sottrarsi perfino alla solita tribuna politica televisiva, provocando a catena capricci da star che potrebbero risultare in un altro colpo alla già asfittica circolazione delle idee. Non a caso qui è in vigore da sempre la “porcata”, ovvero il Porcellum, ovvero liste blindate e candidati scelti dalle segreterie nazionali.

Il premier Passos Coelho e un pugno di dirigenti socialdemocratici hanno anche proceduto alla sbrigativa approvazione estiva di un regolamento che imporrebbe l’autosospensione e, per i più recidivi, la rinuncia alla poltrona per quei deputati che oseranno esitare su ogni singolo emendamento. Forse il segno più preoccupante che il tunnel delle decisioni impopolari è ancora lungo e nero.