Palestina, dove si continua a vivere

L’estate palestinese di quest’anno ha tanti nomi, e tanti volti

di Costanza Pasquali Lasagni, da Gerusalemme

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

Ha il nome di Ali e Saad, 18 mesi e poco più di 30 anni, che sono morti bruciati senza motivo, perché morire bruciati per odio non può essere un motivo.
Ha il nome e il volto scavato di Mohammed Allah, cui nessuna “sospensione della pena”, che sarà probabilmente revocata non appena prenderà due etti in più, potrà sostituire il mancato diritto ad un giusto processo, che spetta, secondo il contratto sociale, anche a chi i reati li commette.

Ha il volto di Z., il tassista che mi riporta a casa e mi racconta che sta applicando per avere un passaporto israeliano. Immagino non sia per preferenza etnica. Sulla sua terra gerosolimitana attende da anni i permessi per costruire una casa, e nel frattempo vive in affitto al di qua del muro, per non perdere la residenza nella città una e trina, a prezzo d’oro.

Paradossalmente, se avesse il passaporto israeliano, potrebbe vivere al di là del muro nella zona urbana di Gerusalemme, dove gli affitti costano molto meno. O finalmente costruire la sua casa. Gli dico, e allora poi così voterai il sindaco! Mi guarda e mi dice che a lui della politica non interessa, e se nel frattempo i permessi saranno concessi, ritirerà la domanda. Che altro è successo quest’estate?, chiedo. No war, risponde sorridendo.

Ha il volto di una collega che mi dice che “ai bambini non si possono raccontare bugie”, e quando va in Striscia a visitare un caravan con 50 gradi che picchiano fuori, e ci si tirano i secchi d’acqua per rinfrescarsi, quando si ha l’acqua, perché il ventilatore ormai, senza elettricità, chi lo accende più, non sa più che raccontarsi.

L’estate palestinese del 2015 ha anche altri nomi. Elvira, Gabriele, Paola, Rino, Mimmo, e tanti altri, che ascoltano curiosi le storie palestinesi “restituite”, così lo abbiamo definito, da una strana blogger umanitaria di passaggio in Puglia, una sera d’estate in un giardino di Molfetta.
E che “hanno fame” di molte altre storie, come Mimmo stesso, alzandosi in piedi, mi dice con entusiasmo e anche un po’ di ardore.
Saltano fuori un po’ di parole, di quelle che le devi andare a cercare sul vocabolario: solidarietà, resilienza, libertà.

Perché proprio queste? Perché se devo scegliere due idee, pensieri, concetti, che vivere qui, in questa terra tutt’altro che santa, mi ha insegnato ad elaborare sono questi. La libertà, nel concetto più developmental che esista, quello di Amartya Sen, ovvero la libertá di scegliere, la libertá dalla paura, la libertá di fare pensare decidere andare accendere una luce o andare a trovare un amico. La libertà, come disse uno degli studenti di Tom Sperlinger all’Al Quds University di Abu Dis, sull’onda dei dieci diritti del lettore di Pennac, di leggere un libro senza dover essere interrotti dalle bombe, dai soldati. Perché può mancare l’acqua, la corrente, la strada, ma un palestinese ti dirà sempre che ciò che gli manca di più, ciò che gli è negato, è la libertà.

Il secondo è il concetto altrettanto developmental di resilienza, ovvero la capacità di un individuo, gruppo, comunità, di sopravvivere ad uno shock e trovare le risorse per ricominciare. A partire da me.
Dal pubblico molfettese mi dicono che è un concetto mutuato dalla fisica. Io ed Elvira Zaccagnino, che cura edizioni a tema di pace e inclusività per La Meridiana e infonde fiducia e forza d’animo ad ogni parola, cerchiamo di trovarne la derivazione psicologica: assorbire colpi, trasformare il negativo in positivo, e continuare.

La più grande sfida alla Guerra, quella con la G maiuscola, all’occupazione, alla morte, è la scelta di continuare a vivere.
E quando metti piede nella terra molto poco santa, non sai da dove cominciare a raccontarla, questa resilienza. La “danza dell’elettricità” che si fa a casa K. a Gaza City, quando – inaspettatamente, prima del previsto – torna la corrente.

L’orchestra dei bambini alla scuola di musica che suona “Katiuscia” nel black out mentre noi teniamo accese le torce dai nostri telefonini e loro non saltano nemmeno una battuta, e poi te li ritrovi all’Arabs Got Talent. La curiosità di una delle vecchiette centenarie del Wafa Hospital, quello di cui da tre palazzi sono rimasti 3 montagnette di macerie, risistemate in un altro ospedale, gratuito per tutti, che non riesce a non chiedermi, mano issuta che non vuole mollare la mia, ombretto verde, e un sorriso enorme, “comment ça va”.

Sono le donne di Ayda camp che ti aprono casa e cucina, e ti insegnano a fare la Maqloube (la “rovesciata”), a tagliare pomodori e cetrioli in micro-cubetti e si re-inventano bed&breakfast in un campo profughi. Sono i bambini che vanno a piedi a scuola nelle colline di Hebron anche se devono essere scortati, all’andata e al ritorno, da volontari internazionali a proteggerli dagli attacchi dei coloni.

E’ la forza che hanno Mohammed, Karim, Sara, di continuare a giocare a pallone, studiare, pensare a cosa vorranno fare da grandi. Se la generazione dei loro nonni ha assistito all’inimmaginabile, e quella dei loro genitori, stremata da intifade, imprigionamenti e chiusure, ha ormai perso le speranze e le parole, quella dei ragazzi che a quindici anni sono già grandi non può essere perduta, e se succede, sarà una sconfitta tutta nostra.

“Palestine, An Educated Nation”, recita il titolo del programma nazionale del Ministero dell’Istruzione. Perché investire nei ragazzi è la scommessa migliore che una comunità, un popolo, una nazione possa fare.
Pochi giorni fa l’UNRWA, l’agenzia che da 60 anni sopperisce ai bisogni e servizi primari dei rifugiati palestinesi in Siria, Libano, Giordania e Palestina, nell’attesa che il mondo trovi, sempre da 60 anni, una soluzione politica, ha annunciato che, anche per quest’anno riusciranno ad aprire le scuole per mezzo milione di bambini, dal Libano alla Siria, alla Giordania, alla Palestina, sospiro di sollievo per le coscienze mondiali. Sconfitta scansata, almeno per un altro po’.

Barbara Schiavulli scrive che forse prima di ripudiare la guerra, dovremmo ripudiare l’ipocrisia. Forse è questo che chiede Mimmo, quando dice che ha fame di storie. Fame di umanità, mi viene da pensare, fame di cose che ci accomunano, da Gaza a Molfetta passando per altri milioni di posti.

Gerusalemme, fine agosto 2015. Un anno fa il cessate il fuoco. Qui si continua a vivere. Nonostante tutto.